Stasera cammino solo, la città vuota ha una luce calda, e la strada ha i suoi suoni di buste della spesa e tacchi alti. Poi le pedalate degli universitari sulle biciclette rubate. Le barbe incolte e i cappotti della Montagnola direttamente dagli anni ’70.
Cerco un’immagine e mi ritrovo nel Duomo di san Giorgio. Entro dalla bocca laterale in una carcassa vuota e decorata, sorprendo la navata disarmata. Ci sono i marmi, le tele, l’altare, di questa cattedrale che non rappresenta più il centro di nulla. Chissà cosa ne direbbe Leon Battista Alberti.
Tuttavia la sua enorme bellezza resta. Il Duomo invecchia e le crepe lo migliorano, il suo silenzio austero e l’incarnato lugubre donano un’alternativa affranta, stasera chiedo asilo, mi lascio avvolgere, protetto.
Nella navata laterale una ragazza legge a una platea di vecchi. Gli unici giovani sono lei e il prete. Mi chiedo che utilità abbia parlare solo a chi probabilmente ha già inteso, a chi ha capito che la vita scorre inesorabile e non c’è spot o pubblicità che trattenga.
Finisco davanti al martirio di san Lorenzo del Guercino. E mi viene alla mente il paese natale dell’artista, dove anche un grande centro commerciale porta il suo nome.
Ogni giorno questo luogo maestoso ha meno visitatori delle Coop che circondano la città e il confine tra sacro e profano si scioglie tutto nei volantini della spesa. Il rito sacrale di questi anni ha cambiato giorni, ora si svolge in settimana con la champions league. Lì c’è lo spirito del ventunesimo secolo. E mentre scrivo il messia è stato sconfitto dalla concorrenza degli implacabili saldi di fine stagione.
Alzo gli occhi verso Lorenzo martire, che avrà avuto pressappoco la mia età quando l’hanno torturato, vilipeso e ucciso. Lui guarda in alto e sembra cercare colui che ancora una volta al momento opportuno ha saputo abbandonare. Gli altri, i romani, lo colpiscono e immobilizzano. Un ragazzino dietro una colonna osserva curioso, non pare dispiaciuto.
Lorenzo arrivò a Roma dalla nativa Spagna, e gli fu affidata la caritas. La cura degli ultimi. E ora è lì, ritratto dal Guercino, sembra più giovane dei suoi trent’anni, arso vivo alla graticola per degli ideali, tre secoli dopo la crocifissione dell’uomo che aveva eletto suo signore.
Sulla strada del ritorno, verso il ghetto, evito via Mazzini e la sua folla, tuttavia poco più in avanti vengo colpito dalla forma particolare di un’altra chiesa, una facciata piccola e graziosa, con a lato un’insegna: Mignon, cinema a luci rosse.
Mi avvicino all’ingresso incredulo e il signore sulla soglia avverte che lo spettacolo è già incominciato, devo aspettare almeno un’ora.
Il cinema porno nella chiesa sconsacrata deve avermi dato un’aria interdetta, visto che l’uomo tiene a precisare che la sala è un posto storico della città e si occupa di erotismo. Il Mignon, continua, è stato oggetto di un lungometraggio da parte di un giovane regista partenopeo.
La cosa mi incuriosisce non poco, però due chiese in una sera mi sembrano davvero troppe, saluto e riprendo il cammino verso casa, ormai in testa mi gira di continuo una canzone di Vasco Brondi che parla dei Cccp e di una gigantesca scritta Coop, nella quale l’autore si rammarica del fatto che i Cccp non ci sono più.
A me la canzone ha sgombrato dalla testa il volto di Lorenzo, e il cinema Mignon ha pensato al resto, non mi rimane che via Saraceno, e sono a casa. Anche questa è Ferrara.
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Sandro Abruzzese
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