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Roberto Bin, docente di diritto costituzionale a Unife e direttore della rivista on-line “Forum di Quaderni costituzionali” e dell’Istituto di Studi Superiori Iuss di Ferrara, è sempre stato a favore del sì alla riforma costituzionale della ministra Boschi, fin dall’inizio di questa campagna referendaria, che a suo parere “è andata oltre i livelli della decenza: si ragiona poco sulle cose e si straparla”. Non stupisce quindi di trovare un suo contributo nel volume intitolato “Perché sì” (Laterza), presentato nei giorni scorsi nella Sala dell’Oratorio San Crispino all’ultimo piano della libreria Ibs-Libraccio.

Roberto Bin
Roberto Bin

Il professor Bin è chiaro: al referendum del 4 dicembre bisognerebbe votare sì “per dare una svolta al modo con il quale questo paese affronta le politiche pubbliche”, dalla scuola al lavoro, all’assistenza alle famiglie, “non c’è un tavolo di discussione comune” e quindi “di fatto non ci sono politiche condivise perché non ci sono istituzioni per raggiungere accordi a livello legislativo e non amministrativo”. Il vero clou della riforma per Bin è, infatti, il cambiamento delle camere e del procedimento legislativo fra i due rami del Parlamento. “Siamo l’unico paese al mondo ad avere due Camere uguali che fanno le stesse cose”, sottolinea il costituzionalista: con la riforma ci sarà una camera che rappresenterà i territori e si metterà in moto così un “principio di collaborazione istituzionale” fra chi farà le leggi, la camera dei deputati, e chi poi le dovrà applicare, il Senato con i componenti provenienti dalle regioni. A suo parere su questo nuovo Senato c’è molta confusione: “non rappresenterà i territori nel senso che i rappresentanti del Molise cureranno gli interessi del Molise e quelli della Lombardia tuteleranno la propria regione. Il Senato servirà per la rappresentanza del sistema delle autonomie, assicurandosi che le leggi dello Stato non ne ledano gli interessi”. Insomma, spiega ancora Bin, “la seconda camera serve a portare la rappresentanza democratica locale: perché le leggi dovrebbero essere imposte alle istituzioni locali?”
Qui, a chi scrive, sorge un’obiezione: se, come afferma lo stesso professore, starà comunque alla Camera che legifera accettare o meno le istanze e le obiezioni del Senato, questo ‘principio di collaborazione istituzionale’ non è piuttosto precario?
“È affidato al buon senso della Camera legislativa, fra Istituzioni non ci pesta i piedi: la Camera dovrà tener conto seriamente e avere rispetto delle opinioni del Senato”, è la risposta di Bin. “Lei pensi a cosa è successo nei giorni scorsi con la sentenza della Corte Costituzionale sulla legge Madia: è un vistoso esempio del Governo che ha proceduto senza una giusta consultazione delle regioni. La conseguenza è il conflitto, che non fa bene a nessuno: se la Camera decide di approvare una legge specialistica che scavalca il sistema delle autonomie, la reazione è di conflitto, mentre se passa la riforma il Senato potrebbe segnalare la cosa alla Camera”.

E proprio a proposito del contenzioso Stato-Regioni, altro punto caldo della campagna referendaria, Bin confessa: “non cambia niente” perché “la riforma non fa che riprendere ciò che quindici anni di giurisprudenza della Corte Costituzionale hanno sedimentato”. Però ci sono “due accorgimenti non da poco: lo Stato può dettare solo disposizioni generali e comuni e sono indicate alcune competenze regionali”. In altre parole se la tutela della salute è competenza dello Stato, la programmazione spetta però alle Regioni.
La riforma del Titolo V quindi “non distrugge le competenze regionali come dice il Comitato per il no, che sostiene che il centralismo non avrà più confini: il centralismo c’è già e la causa è che non c’è un Senato che intervenga nella formazione delle leggi per difendere le autonomie”.
Secondo Bin “la follia del nostro sistema è non aver immaginato e inserito un procedimento di collaborazione e concertazione fra Stato e Regioni”, costringendo la Corte a decidere a tal proposito solo in base “all’interesse prevalente, regionale o statale”, un criterio piuttosto “aleatorio”, afferma Bin.

Sicuramente per il professore “la produzione delle leggi non è un problema”, al contrario di quanti sostengono la riforma per “avere leggi in tempi più rapidi”, come si legge sul sito del Comitato per il sì. Bin però precisa: “se non c’è qualcosa di delicato”. Come nel caso “del testamento biologico, della legge sulla prescrizione, del reato di tortura”, tutti provvedimenti fermi al Senato. Un’altra osservazione interessante del docente Unife riguarda un aspetto meno immediato e meno citato del nuovo iter delle leggi: “democrazia non significa solo votare ed eleggere, significa anche far valere la responsabilità di chi fa le leggi. Avere due camere che si rimpallano le leggi significa non sapere chi ha la responsabilità delle norme”. E fa l’esempio proprio della tanto vituperata immunità per i senatori, mantenuta anche per il nuovo Senato: “non si sa chi l’ha voluta, è apparsa in commissione al Senato, poi è stata tolta e rimessa più volte”.
Ed ecco un’altra obiezione: siamo sicuri di approvare un riforma costituzionale scritta da politici così, che per stessa ammissione del docente Unife “non guardano al di là del proprio naso”? Non sarebbe meglio cambiare loro piuttosto che la Costituzione?
La risposta di Bin – ahinoi! – non sembra fare una piega: “Le riforme le fanno i politici, non possiamo aspettare di avere gli angeli in Parlamento: i politici sono quello che sono, questa riforma risolve qualche problema, nel senso che ci porta a delle soluzioni istituzionali che sono quelle che hanno tutti i paesi moderni. Che anche i nostri politici abbiano raggiunto questa consapevolezza fa piacere, non possiamo dire che perché non sono lungimiranti tutto ciò che fanno è meglio che non lo facciano: dovrebbero fare di più, ma quello che abbiamo è questo”.

Per quanto riguarda il Cnel, secondo Bin “è un organismo superato nei fatti, non costa tantissimo, ma è sostanzialmente inutile”, mentre si dichiara “fortemente contrario alla logica di risparmiare sui costi della politica: è talmente importante che bisognerebbe investire in politica” dichiara il professore. Infine, per quanto riguarda la tanto paventata ‘deriva autoritaria’, il costituzionalista non ha dubbi: “i poteri del governo sono ristretti”.
Ed ecco la terza e ultima obiezione. Bin ha parlato di una maggioranza sottoposta al possibile ricatto delle minoranze con l’attuale sistema bicamerale, mentre con il nuovo procedimento la maggioranza di governo uscita dalle urne sarebbe meno soggetta ai veti delle minoranze: con il crescente astensionismo che si continua a registrare nelle ultime tornate elettorali – clamoroso il caso delle ultime amministrative nella nostra regione – si può davvero parlare di una maggioranza di governo che corrisponde a una maggioranza nel Paese?
“È un argomentazione un po’ strana: il drastico ridimensionamento di coloro che non vanno a votare si registra in tutto il mondo, non è un fenomeno solo italiano. Dopodiché chi non va a votare per definizione ha torto: se loro non vanno a votare la maggioranza è delegittimata? No, non vanno a votare e quindi preferiscono non esprimere la propria opinione. Ciò non toglie che dopo il voto una maggioranza esiste, non vedrei altra soluzione democratica. Il problema è cosa succede se i politici non sono in grado di mobilitare gli elettori”.

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Federica Pezzoli



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