RITRATTI
Vicende, passioni e turbamenti giovanili di Giorgio de Chirico nella pettegola Ferrara
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“Io ripresi a dipingere. L’aspetto di Ferrara, una delle città più belle d’Italia, mi aveva colpito; ma quello che mi colpì sopratutto e m’ispirò nel lato metafisico nel quale lavoravo allora, erano certi aspetti d’interni ferraresi, certe vetrine, certe botteghe, certe abitazioni, certi quartieri, come l’antico ghetto, ove si trovavano dei dolci e dei biscotti dalle forme oltremodo metafisiche e strane.”
Oggi come nel 1915 le parole con cui Giorgio de Chirico descrisse la città di Ferrara risultano evocative, tanto che leggendole la mente vaga tra le vie, soffermandosi nei luoghi che tanto ispirarono l’artista. La guerra è un ricordo vivo ma lontano, anche se questi cent’anni non hanno lasciato mutare troppo la città, le cui specialità culinarie e i monumenti caratterizzanti furono studiati e dipinti da de Chirico, destinato insieme al fratello Alberto Savinio al 27° reggimento di fanteria, Brigata Pavia. Non ancora celebre, la sua fama iniziava a diffondersi a Parigi, ma non gli garantiva un reddito. Dopo un primo periodo d’adattamento alla vita militare e l’arrivo della madre, riprese a dipingere, ma cambiò il suo stile, seguendo una corrente parigina. La funzione del disegno mutò, facendolo diventare più definito e lavorato, non più un appunto poco curato o confuso, anche perché i ritmi della vita militare non permettevano, almeno inizialmente, troppo tempo per la pittura. “I progetti della fanciulla” fa parte delle opere del primo periodo ferrarese e della poetica degli oggetti, non legata a una tradizione plastica, ma all’idea che si dovessero compiere delle libere associazioni intuitive. In altri quadri, come “Composizione metafisica”, vengono disegnati in modo iperrealistico i tipici dolci e i pani ferraresi, come la coppia, descritti anche dal fratello Alberto in un capito della sua opera, “Hermaphrodito”: “…dolci metallici non destinati ai mortali ma offerti alle divinità infernali”. Si narrava, infatti, che la tradizione volesse che, alla morte di un ferrarese, venissero adagiati vicino al corpo del defunto del panpepato e del pan di cedro, come dazio da pagare per accedere al regno dei morti.
Assunto come scritturale, ebbe più tempo per dedicarsi alla vita artistica e per conoscere le personalità che circolavano intorno a Ferrara, distanti da quell’ambiente militare che trovava “lontano dalla sua psiche”. Tra i primi, frequentò il poeta Corrado Govoni, ma per poco, infatti lo considerò poco accogliente e riservato.
Non fu facile instaurare un rapporto con i ferraresi, in cui notava una latente pazzia,la mania per il pettegolezzo e per l’indiscrezione. Nelle sue Memorie, parlando di loro, affermava:
“Inoltre i ferraresi sono anche terribilmente libidinosi; ci sono giorni, specialmente nell’alta primavera, in cui la libidine che incombe su Ferrara diventa una forza tale, che se ne sente quasi il rumore, come di acqua scrosciante o di fuoco divampante”.
Incuriosito da questo fenomeno, ne discusse con il professor Tambroni, frenologo del manicomio ferrarese e apprese che la causa di quest’atteggiamento era da ricercare nel sottosuolo e nell’aria: una strana combinazione di umidità e di esalazioni della canapa influenzava l’organismo umano, portando la malizia dell’agire quotidiano dei cittadini. Da viaggiatore, ogni esperienza e ogni luogo erano fondamentali per i suoi lavori, da ogni cosa che osservava e da ogni persona che incontrava de Chirico traeva qualcosa che potesse essere d’ispirazione per i suoi lavori. Tra i personaggi ferraresi che conobbe e stimò, definendoli scherzosamente come “non campioni di normalità”, ricorda il caporale Carlo Cirelli, a cui donò un ritratto, e un giovane Filippo De Pisis, studioso e non ancora pittore. Conobbe anche una donna di cui si innamorò, Antonia Bolognesi, una giovane impiegata comunale ritratta nel dipinto “Alceste”, futura promessa sposa che invece lasciò dopo i trasferimento a Roma, causandole un enorme dolore che traspare dalle sue lettere.
Colui che influì maggiormente sulla sua arte, però, fu Carlo Carrà, incontrato durante un periodo a Villa del Seminario (oggi Città del ragazzo), l’ospedale militare per malati nervosi a pochi chilometri da Ferrara. Qui i due artisti ebbero il permesso di lavorare alle loro opere e, da questo confronto, incoraggiato dall’amico scrittore e pittore Ardengo Soffici nacque quella che viene definita pittura metafisica. Passarono un paio di mesi insieme nella struttura, tempo in cui, secondo de Chirico, Carrà copiò i suoi lavori, cercando di riprodurre i suoi soggetti. Celebre per la sua opera del 1911, “I funerali dell’anarchico Galli”, icona della città contemporanea in perpetuo movimento, Carlo Carrà fu fortemente autocritico, tanto da distruggere la maggior parte delle sue opere futuriste. Terminato il suo periodo a Ferrara e tornato a Milano, inaugurò una mostra con l’intento, sempre secondo de Chirico, di elevarsi come unico creatore della pittura metafisica, cosa che comportò incomprensioni tra i due.
Manifesto della pittura metafisica fu l’opera realizzata tra il 1916 e il 1917, “Le muse inquietanti”, in cui due manichini da sartoria sono posizionati in primo piano come strutture di marmo, circondate da oggetti, sullo sfondo del Castello degli Estensi, che rende riconoscibile il luogo vuoto e misterioso, posizionato in un tempo non definito.
Sono infatti i monumenti a rendere i luoghi deserti riconoscibili, rappresentati proporzionati e mai deformati, sfondo di scene senza tempo, misteriose e silenziose, la cui unica presenza è quella dei manichini, forme vuote e immobili.
Ritornato a Ferrara “[…] con l’euforia d’un giovane che parte in villeggiatura per incontrare una ragazza bellissima”, de Chirico ricominciò a lavorare alle sue opere, dipingendo misteriose e romantiche piazze e interni metafisici, in quello che fu il periodo più produttivo del suo soggiorno nella città estense. Dovette fermarsi nel 1918, quando colpito dalla febbre spagnola fece ritorno alla Villa del Seminario, in attesa della venuta della madre. Giunse così l’ottobre del 1918, la Germania chiese l’armistizio e i soldati scesero in strada a festeggiare. Tra i tanti, anche un ancora debole de Chirico lasciò i pennelli con cui stava terminando un interno metafisico e scese in piazza, unendosi alla folla che sembrava impazzita, godendo degli ultimi giorni nella città che l’aveva ammaliato, trasformando per sempre la sua arte.
A un secolo dalla sua permanenza a Ferrara, il Palazzo Diamanti ha inaugurato l’esposizione “De Chirico a Ferrara. Metafisica e Avanguardie”, in mostra dal 14 novembre al 28 febbraio.
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Chiara Ricchiuti
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