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Fotografare, per me, non è stata un’operazione artistica: è stato vivere, una specie di resistenza a quello che stava accadendo nella mia città, a Palermo. Quando fai le foto per la cronaca nera di un quotidiano hai pochi secondi per scattare prima che arrivino calci e pugni. Attimi che servono a mettere a posto cervello e obiettivo. Non si trattava di fare opere d’arte, ma di raccontare che noi stavamo soffrendo, che un governo italiano permetteva questo”. Letizia Battaglia, 83 anni compiuti il mese scorso, ha la vivacità anticonformista di una ventenne, i capelli color verde turchese, dritti a caschetto sotto la frangia che incornicia quel viso che si può vedere nelle foto delle schede biografiche, di solito in bianco e nero. Sabato pomeriggio, invece, nel cortile dell’ex caserma dei vigili del fuoco, a Ferrara in via Poledrelli, la “fotografa della mafia” è apparsa in tutta la sua colorata vivacità, combattiva e tenace con la disarmante sfacciataggine di chi è abituato a scendere in strada, ad andare dritto al punto senza girarci tanto attorno.

Il merito di averla portata in città va agli organizzatori del festival di fotografia ‘Riaperture’, che nel fine settimana appena concluso e anche il prossimo continuerà a invadere Ferrara con quindici mostre allestite aprendo temporaneamente sontuosi palazzi storici accerchiati dalle impalcature, spalancando porte chiuse da decenni e alzando serrande abbassate di negozi. A presentare la fotografa palermitana insieme con il direttore del festival Giacomo Brini è stata la giornalista Daniela Modonesi che l’ha intervistata sul palco allestito nell’area all’aperto di Spazio Grisù.

Letizia Battaglia con Daniela Modonesi e Giacomo Brini a Ferrara per festival di fotografia Riaperture 2018 (foto Giorgia Mazzotti)

Come inizia la professione fotografica di Letizia Battaglia?
“A 40 anni – ha raccontato la fotografa – dopo aver fatto fino ad allora la madre e la moglie, sono andata a Milano, ero inquieta, ho iniziato a fotografare senza saperne molto. Poi a ‘L’Ora’ di Palermo mi hanno chiesto di gestire l’organizzazione fotografica del giornale e sono andata con entusiasmo nella mia città. Lì però ho scoperto la violenza, i corleonesi, la droga, tanti ragazzi che per quella sono morti, gli uomini migliori (giudici, poliziotti) che sono stati ammazzati. Falcone e Borsellino sono stati solo gli ultimi di una lunga fila di eroi. C’è collusione e spesso i poliziotti sono stati uccisi a causa del tradimento di altri poliziotti. Non è vero che c’è un codice d’onore. Tutto sta nei soldi e nel potere, e non importa se per averli c’era da ammazzare donne e bambini. Veniva ammazzato chiunque si avvicinasse alla loro droga, alle loro rapinerie”.

La mostra con le fotografie di Letizia Battaglia – Palazzina Cavalieri di Malta, Ferrara (foto Luca Pasqualini)

Quali sono i segni che il tuo lavoro ha lasciato in te? Hai detto del sogno in cui bruciavi tutti i negativi delle foto.
“Vivendo quelle cose, mi è venuto da pensare che quelle foto non le volevo più vedere. È chiaro che non posso e non devo distruggere quelle foto. Però la rabbia per ciò che c’era mi ha fatto pensare di bruciare i negativi e ho fatto il video dove in realtà bruciavo le foto. Ma con quelle foto ho raccontato fatti, non menate intellettuali. Palermo non è una città normale, è una città simbolo dove è bello combattere. Quando con il mio compagno di allora, Franco Zecchin, decidemmo di fare una mostra contro la mafia che ancora stava sparando, nessun altro volle partecipare. Siamo andati a Corleone con i pannelli con sopra le foto dei mafiosi corleonesi arrestati e ammazzati. La piazza era piena di gente che si godeva il giorno di festa. Tutt’a un tratto la piazza si è svuotata; siamo rimasti solo noi con le nostre foto. Tutti hanno fotografato quello che ho fotografato io. Dove sono gli altri? Il punto è che i giornali non le chiedono più, quelle foto. Ora, non lo sapete, ma a Palermo c’è un grande processo. Il giudice Nino Di Matteo sta facendo un processo contro lo Stato, perché c’è stato un patto affinché la mafia non uccidesse più. Ma la mafia c’è ancora, c’è ancora il pizzo e c’è la droga. Circola non solo a causa dei nostri mafiosi, ma perché gli italiani fanno un affare con gli spacciatori. Eppure la mafia non è più fotografabile. Sono tutte persone pseudo perbene che dirigono banche, business, non sono più i cafonazzi che sono in galera. La mafia c’è ancora, c’è anche qui, anche se voi non ve ne accorgete”.

Letizia Battaglia sul palco (foto GM)

I programmi di Letizia adesso?
“Il prossimo anno farò una grandissima mostra a Venezia con foto mai viste. Il bianco e nero era una scelta per me, l’ho mantenuto come una necessità anche dopo che è arrivato il colore. Il rosso, il sangue, non me li volevo permettere. Un giorno avevo messo il colore e sono dovuta andare dove c’era un morto ammazzato e poi un altro, che era un bambino: il figlio di quello che avevano ammazzato, ucciso perché aveva visto i killer. La pellicola che avevo era a colori, ma la foto l’ho messa in bianco e nero; per me era più pudica. Nella mostra che farò ci saranno le mie foto che non si sono mai viste e che non si vedono più. L’unica a colori, grande grande, sarà quella di quel bambino. Perché quando si dice che la mafia non tocca i bambini non è vero. Come Giuseppe Di Matteo: fu rapito (23 novembre 1993, ndr) che era un bambino e l’hanno tenuto mesi e mesi sotto terra, poi l’hanno strangolato e bruciato perché suo padre si era pentito”.

L’esposizione di “Fotografie” di Letizia Battaglia, nella palazzina di corso Porta Mare 7, a Ferrara (foto Luca Pasqualini)

Su Facebook vengono censurate foto come quelle della bambina che scappa nuda dal Napalm, in Vietnam.
“Io spero che Facebook o qualcuno di loro vada in carcere. Chi pensa di censurare una bambina in quella situazione perché è nuda, deve avere la testa malata. Come quando hanno detto che non si doveva mostrare il bambino siriano, Aylan, morto annegato sulla spiaggia. La fotografa (la giornalista Nilufer Demir dell’agenzia di stampa turca Dogan, il 2 settembre 2015, ndr) ha fatto bene a scattarla. Quelle foto raccontano più di tanti libri. È importante fare vedere quello che accade. Come nel caso di Andreotti. Non è vero che è stato assolto, come a volte si legge sui giornali: questa è una gran balla. Lui andò in prescrizione, ma la polizia ha cercato nel mio archivio e ha trovato la sua foto insieme con i mafiosi e con Salvo, e io nemmeno sapevo di averla, quell’immagine. Le foto possono servire, anche dopo tanti anni, per raccontare qualcosa. Peccato che non ci sia un archivio, in Italia, dove i fotografi possano depositare i loro lavori”.

Pubblico ad ascoltare Letizia Battaglia, a Ferrara per festival di fotografia Riaperture 2018 (foto GM)

L’attività di Letizia Battaglia adesso.
“A Palermo, le foto, io le sto raccogliendo. Ho fondato il Centro internazionale di fotografia dentro un edificio bellissimo, fatto da un’architetta donna e vecchia come me. Vorrei che fosse una specie di roccaforte di difesa (o forse di attacco). Per fortuna al Comune la mafia non entra, abbiamo il sindaco Orlando. È una città dove avvengono tutte le cose brutte e tutte le cose belle”.

Unica donna – ha commentato Daniela Modonesi – in mezzo a scene di delitti tra poliziotti, magistrati, giornalisti. Cosa ha significato?
“Per diciannove anni, sono stata molto orgogliosa di essere una fotoreporter, fotografa donna, l’unica in quegli anni a fare questo lavoro per un quotidiano. Essere donna, però, con i capelli che non erano verdi, ma sempre un po’ colorati, all’inizio mi ha creato qualche problema. Ricordo ancora con molta rabbia che sulle scene del delitto già transennate facevano passare tutti tranne me. Allora a un certo punto ho iniziato a gridare, come una cretina. Mi ha aiutato molto Boris Giuliani, il capo della polizia, che disse ai suoi che questa signora stava lavorando e andava fatta passare. Il giornale mi pagava per un servizio che doveva essere migliore di quello della concorrenza e io sentivo forte questo senso del dovere”.

“La bambina col pallone” di Letizia Battaglia, Palermo 1980

La Palermo che hai fotografato – ha ricordato l’intervistatrice – è anche quella delle donne e delle bambine. Qual è la situazione a cui sei più legata?
“C’è quella foto lì, della bambina, che poi è diventata la mia foto più famosa. Per spiegarla devo tornare a quando io avevo dieci anni. Fino ad allora ero vissuta a Trieste, perché mio padre era un marittimo, lui girava e noi, la famiglia, lo seguivamo. A Palermo ci sono arrivata che avevo, appunto, dieci anni. Una volta uscii e un uomo si esibì. Mi spaventai e tornai a casa piangendo. Mio padre decise che era meglio che rimanessi chiusa in casa. Allora divenni un po’ matta, una bambina ribelle. A 16 anni volli sposarmi. La bambina che cerco in ogni dove, magra, con le occhiaie scure – l’ho capito dopo molto tempo – sono io. Perché è quell’età che non sei ancora donna e non sei più bambina. È un momento intenso, bellissimo della vita, quando nascono i primi desideri, pensieri. La volta che ho fatto quella foto, trentotto anni fa, avevo incontrato in strada un gruppo di bambini normalissimi che giocavano, non avevano nessun fascino particolare. Poi ho visto la bambina, l’ho fatta andare verso quella porta chiusa, lei ha alzato il braccio col pallone, clic. E quella è diventata la foto per la quale tutti mi conoscono. Mi sono resa conto che ogni volta che incontravo delle bambine così, era come se ritrovassi la pace, la bellezza. Ora vorrei fare un libretto, una cosa a parte, con tutte le mie bambine”.

Letizia Battaglia sul palco a Spazio Grisù sabato 7 aprile 2018 (foto GM)

Oltre alla fotografia c’è l’impegno politico.
“Era il 1985 quando Lanfranco Colombo della galleria Diaframma Canon ha pensato di spedire le mie foto al Premio Eugene Smith, a New York. Io non lo sapevo nemmeno. Poi ricevo il telegramma che sono tra le finaliste. E alla fine vinco, ex aequo, insieme a un’altra donna (l’americana Donna Ferrato). È stata un’emozione enorme! Così ho capito che volevo fare di più. Allora c’erano i Verdi, che difendevano l’ambiente, le piante, erano il nuovo. Mi piacevano molto e con loro entro in Consiglio Comunale. Orlando, nel frattempo, lascia la Democrazia Cristiana e fa una giunta insieme con i Verdi e io divento assessore. Non sapete cosa ha significato per una fotografa con gli zoccoli ai piedi come me! Sono stati gli anni più belli in assoluto. Perché avevo come un potere: di fare, di levare le pietre brutte, aggiustare le strade, mettere le panchine, salvare una ragazza madre, pretendere il rispetto per la gente che era in carcere. Quattro anni importanti, in cui ho fatto cose piccole piccole, ma così importanti per me. Poi fui candidata a deputata e fu un errore. Avevo uno stipendio grandissimo, ma non potevo fare niente. Non ho fatto neanche fotografia. Il fatto è che non sono né una fotografa né una politica, ma una persona che ha cercato di fare il meglio, di mettercela tutta, con questa passione, e ora sono anche contenta di essere bisnonna di tre bambini meravigliosi. È tutto un circolo… Poi leggo che sono la ‘fotografa della mafia’. Ma che cos’è questa storia?! In italiano vuol dire che sei assoldato dalla mafia. Ma ho il mio Centro di fotografia a Palermo, è un periodo bello, ogni giorno dalle 4 alle 6 e un quarto sono là. Insieme con altre persone, tutte giovani, ho già fatto sei mostre. Non è facile, voi di ‘Riaperture’ lo sapete. C’è il sindaco qui? Sindaco, dagli i soldi a loro di ‘Riaperture’, per fare mostre e organizzare cose. Ci vogliono i soldi anche quando tu lavori gratis, perché servono le cornici, i microfoni, le assicurazioni. Questo rende viva la città. Ciao!”.

Grazie, ciao.

‘Fotografie’ di Letizia Battaglia in mostra per Riaperture Photofestival a Palazzina Cavalieri di Malta, corso Porta Mare 9 – Ferrara. Visitabile venerdì 6, sabato 7, domenica 8 e venerdì 13, sabato 14, domenica 15 aprile 2018, ore 10-19.

Info sul Riaperture Photofestival cliccando qui su CronacaComune del 3 aprile 2018

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Giorgia Mazzotti

Da sempre attenta al rapporto tra parola e immagine, è giornalista professionista. Laurea in Lettere e filosofia e Accademia di belle arti, è autrice di “Breviario della coppia” (Corraini, MN 1996), “Tazio Nuvolari. Luoghi e dimore” (Ogni Uomo è Tutti Gli Uomini, BO 2012) e del contributo su “La comunicazione, la stampa e l’editoria” in “Arte contemporanea a Ferrara” sull’attività espositiva di Palazzo dei Diamanti 1963-1993 (collana Studi Umanistici UniFe, Mimesis, MI 2017). Ha curato mostra e catalogo “Gian Pietro Testa, il giornalista che amava dipingere”.


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