RIAPERTURE
Francesco Zizola: Ecco perché posso fare foto buone, non belle
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Vincitore per sette volte del World Press Photo, uno dei più prestigiosi concorsi di fotogiornalismo mondiale organizzato con cadenza annuale dalla omonima fondazione che ha sede ad Amsterdam, Francesco Zizola è considerato uno dei maggiori fotoreporter contemporanei. Ospite del festival di fotografia ‘Riaperture’ (leggi QUI), in corso a Ferrara durante lo scorso fine settimana e in quello in arrivo, Zizola è stato protagonista domenica scorsa (8 aprile 2018) di un incontro pubblico sul palco dello spazio Grisù, in via Poledrelli a Ferrara, dove ha parlato del suo lavoro, sollecitato dalle domande del giornalista Stefano Lolli. A chiarire l’approccio che contraddistingue la fotografia di Zizola, ci riesce subito la considerazione di Lolli:
Io ti ho detto che le tue sono foto belle, ma tu mi hai corretto dicendo che non sono affatto belle, semmai buone.
“La foto bella – sottolinea Zizola – è quella che compiace il pubblico, ammicca a una realtà lontana e ne costruisce un’altra. Potrebbe essere bella la fotografia che dà corpo alla fantasia, all’immaginazione e alle capacità visionarie di un mondo interiore con poca attinenza coi fatti. Una foto, invece, che funziona da un punto di vista informativo, può essere buona, non bella; attraverso gli elementi che stanno dentro a questo rettangolo bidimensionale crea una sintesi tra la visione del fotografo e un primo grado di notizia. È buona una foto che riesci a leggere e la lettura di questo tipo di foto suggerisce il secondo grado di notizia, quello che trascende i fatti e ne fa un’icona di situazioni che gli esseri umani hanno vissuto e possono vivere. Questo credo che sia un buon servizio a un buon giornalismo.
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Cosa serve per essere un buon fotografo?
La capacità di fare una buona fotografia non è scontata, perché riguarda anche lo spessore umano. Il giornalismo esiste perché, sin dagli albori, gli esseri umani avevano la necessità di sapere cose che andavano oltre a ciò che potevano raggiungere con i loro sensi. È un bisogno dettato essenzialmente dalla paura. I graffiti, nelle caverne degli uomini primitivi, erano istruzioni precise trasmesse ad altri esseri umani. Spiegavano cose pratiche – da dove arrivavano i bisonti e come si inclinava l’erba in una certa direzione – fornendo informazioni essenziali per la sopravvivenza. Non è la macchina fotografica che fa il fotografo, ma il contrario; è chi c’è dietro all’obiettivo a fare la differenza. Alcune delle foto che ho fatto e che sono anche in mostra sono fatte con il telefonino. E quando lo dico vedo che le persone sussultano.
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L’uso del cellulare ha cambiato la fotografia?
Nei quasi 175 anni che sono passati dacché la fotografia è stata inventata noi, il mondo occidentale, siamo stati gli unici a usare le foto per auto-celebrarci, per raccontarci. Di recente, con quell’aggeggio lì, hanno iniziato a farlo anche in tante altre parti del mondo. Oggi, finalmente, la fotografia è usata, letta e prodotta dalla stragrande maggioranza degli esseri umani. In certi villaggi africani che non hanno nemmeno l’elettricità ho visto che ciascuno di loro andava in giro con al collo un sacchetto di cuoio con dentro una schedina Sim chiusa nel cellophane. Il cellulare, lì, ce l’aveva solo una persona, ma le donne grazie a quello e alla Sim potevano spedire la fotografia con le ceste di pomodori prima di mettersi in cammino per venderle a chilometri di distanza. Mandavano la foto e col cellulare qualcuno dall’altra parte dicevano loro se, di ceste di pomodori, ne servivano di più o di meno. L’uso del cellulare con dentro la lente fotografica sta cambiando molte realtà.
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Internet e gli smartphone cambiano anche l’approccio all’informazione.
Due anni fa ho fatto una presentazione al ‘National Washington’, negli Stati Uniti, e loro mi dicevano che stanno cercando di capire come fare. Gli abbonamenti e le vendite del giornale stanno crollando. I lettori, per quanto interessati, non comprano più la carta. Io stesso mi rendo conto che leggo la maggior parte delle notizie online. Manca un ricambio generazionale e i vecchi abbonati non sono rimpiazzati da quelli nuovi. Le persone, poi, non si accontentano più della stessa pappa pronta. C’è anche un’esigenza narrativa. La formula che andava prima non basta più. Si è molto più liberi di esplorare la realtà usando più media. Se non ci fosse stato questo cambiamento tecnologico, non avrei portato quelle immagini con movimento e suoni che sono esposte nella mia mostra. Il nuovo pubblico vuole avere più dettagli e in un flusso continuo, in cui è il fruitore, non l’editore o il caporedattore, che decide in quale ordine prendere le notizie. Il mondo è complesso, le persone ne sono consapevoli, e questa complessità va trasmessa.
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La tecnologia è sempre più sofisticata, ma di foto come quelle di Zizola è difficile trovarne.
Di fotografi bravi ce ne sono tanti. Uno dei miei maestri di riferimento, Henri Cartier-Bresson, diceva che fotografare vuol dire porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore in una frazioni di secondi. Da dire è semplicissimo, per farlo servono l’intelligenza, le cose che leggi, i film che vedi. Bisogna riempirsi ed elaborare; sentire, provare, arrabbiarsi. Senza tutto questo la fotografia non viene fuori. Cioè, la fotografia viene fuori, ma non c’è tutto l’aspetto interiore. Senza questo allenamento, senza questa sensibilità, le cose non le vedi nemmeno se ti passano davanti. La mia disciplina è quella di affinare una visione. Questo non è semplice, e affinare questa dote spesso è causa di grandi sofferenze, soprattutto se hai a che fare con persone che soffrono.
C’è chi dice – fa notare Lolli – che un fatto di cronaca parla da sé, che sia un incidente o una notizia eclatante.
A volte mi capita di fare workshop. Di recente, a uno di questi a Roma, c’era un ragazzo che aveva fatto foto durante una manifestazione dove c’erano stati scontri con la polizia. Era molto coinvolto e orgoglioso di mostrarmi quelle immagini e, mentre me le faceva vedere, mi raccontava le sensazioni che aveva provato: i gas lacrimogeni che gli bruciavano negli occhi mentre scattava, la concitazione. Ma lui stesso, credo, mano a mano che faceva scorrere davanti a me quelle immagini si deve essere reso conto che tutte quelle sensazioni, lì, non c’erano. Ti può succedere di tutto, davanti agli occhi. Ma bisogna saperlo tradurre in una visione più complessa; più complessa è la visione che trasmetti, più l’immagine è buona.
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Ma di fotografie brutte, tu, non ne fai mai?
La maggior parte delle fotografie sono brutte. Serve un po’ di fortuna, ma per averla, di biglietti della lotteria ne devi comperare tanti. Ci deve essere una costanza nel porsi nel posto giusto al momento giusto. Costanza nel sapere anticipare un movimento, un evento. Perché sai che quella cosa potrebbe succedere. C’è una similitudine tra chi fa fotografia e il cacciatore. Chi caccia conosce le abitudini della sua preda, si predispone controvento nel posto giusto, nella stagione giusta, per poterla catturare con il minore sforzo possibile.
La mostra con le tue fotografie che è allestita nello spazio dell’ex drogheria Bazzi, in piazza Municipio a Ferrara, è dedicata ai migranti.
Girando per il mondo ho potuto vivere le tantissime differenze di trattamento degli esseri umani (documentando dalla fine degli anni Ottanta in particolare le condizioni dell’infanzia in diversi luoghi del mondo, dai figli delle guerre in Iraq, ai piccoli lavoratori dell’Indonesia, ai bambini di Los Angeles, ndr). E ho riflettuto sulla necessità di migrare da parte delle persone per cercare situazioni di vita migliori. Persone che provengono da luoghi molto remoti, rispetto alla nostra presunta centralità sia sociale sia politica. È stato un percorso di condivisione ed empatia.
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Nelle fotografie esposte a Ferrara e nel video installato lì, si vedono le persone che salgono senza soluzione di continuità a bordo di una barca.
Sì, sono stato per tre giorni a bordo delle navi di salvataggio di ‘Medici senza frontiere’ e ho partecipato con loro alle operazione di recupero dei natanti in difficoltà, che l’associazione ha ottenuto di poter fare nell’agosto 2015. Negli anni precedenti questo non si faceva: quando le navi venivano avvistate, si metteva la prua in direzione opposta e questi natanti di solito affondavano con a bordo il loro carico di uomini, donne e bambini. Poi c’è stata la grande tragedia del naufragio di quella caretta strabordante di persone (il 18 aprile 2015 un peschereccio con oltre 700 migranti a bordo affonda al largo della costa della Libia, ndr). Così, in quel momento l’organizzazione di soccorso sanitario ottiene di poter operare sia nei salvataggi sia in veste di testimone degli interventi delle navi militari, affinché non potessero più dirigere le prue di questi barconi nella direzione contraria. Adesso hanno deciso che questo non si faccia più, e quindi in decine di migliaia riprenderanno a morire. Ma in quei giorni io ho potuto stare a bordo con loro. Ho visto salvare circa tremila persone. Il video filma un’operazione di salvataggio di un battello da pesca abilitato per portare 30 persone, che si trovava in mare con a bordo oltre 150 persone. Ho fatto video, foto, filmati per cercare di ampliare più che potevo il tentativo di racconto.
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Come ti ponevi con le persone che avevi intorno e che fotografavi?
Nei momenti più salienti loro pensavano a tutt’altro che a me e io stesso ho dedicato molte ore non a fotografare, ma ad aiutare i volontari nell’assistenza, a distribuire le sostanze energetiche, a scartare coperte, a darle alle persone che salivano. Poi ci sono stati momenti in cui ho raccolto storie, ho fatto ritratti. Se loro non volevano, ho rispettato la loro volontà. Per questo motivo, ad esempio, si vedono così poche donne. Perché la loro religione vieta di essere riprese ed esposte.
Il fotogiornalismo implica che non ci sia manipolazione dell’immagine. Tu che tipo di post-produzione fai?
Fotografare è di per sé un processo manipolativo. C’è una trasformazione dell’energia, che è la luce, in un segnale luminoso. La necessità è quella di mantenere credibilità. E questo fattore non dipende dalla tecnologia, ma dalla cultura delle persone; è un elemento che passa attraverso l’etica. Io uso quella scala che va dal bianco al nero, eliminando tutti i colori. Il fotogiornalismo si distingue all’interno della fotografia per l’introduzione di alcune regole, che sono prima di tutto quelle di non manipolare la realtà; se arrivo che un fatto è già avvenuto, non posso chiedere ai protagonisti di riproporre una scena. Poi non posso con un software eliminare un pezzo di fotografia che non è funzionale e nemmeno aggiungere qualcosa che ho in un’altra immagine. Detto ciò, capita che l’intervento avvenga anche nelle redazioni e all’insaputa del fotografo. Come successe dopo l’attentato di Nassiriya a L’Espresso. Perché, oltre ai fotografi, ci sono anche i foto-editor. Ma in Italia chi manipola e mente spesso viene premiato, perché ha la fiducia di direttori e caporedattori. All’estero, invece, quando ciò viene fuori, l’editore licenzia tutti, dal direttore in giù, per far sì che il suo giornale sia credibile. Perché si ritiene che sia la credibilità a fare la differenza, a rendere un giornale degno di essere letto, cercato, creduto.
Riaperture Photofestival torna a Ferrara da venerdì 13 a domenica 15 aprile 2018, ore 10-19, con 15 mostre in 8 spazi tra chiese dismesse, palazzi in ristrutturazione e negozi chiusi aperti appositamente per l’occasione.
La mostra ‘In the same boat’ di Francesco Zizola è visitabile negli spazi dell’ex drogheria Bazzi, piazza Municipio 18-22, Ferrara. Aperta 6-7-8 e 13-14-15 aprile 2018, ore 10-19
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