La cosa più bella di “Riaperture Photofestival” – a Ferrara da venerdì 17 a domenica 19 marzo 2017, ore 10-19 – è vedere in faccia i fotografi e sentirli parlare delle loro foto e della loro scelta di fare questo mestiere. E poi è una grande occasione per guardare fotografie, sbirciate magari su blog o pubblicate sui giornali, che ora sono esposte qui, in spazi riaperti di Ferrara e altrimenti inaccessibili perché ci sono lavori in corso o perché sono negozi dismessi, uffici da affittare, palazzi e aree storiche in abbandono. L’aspetto negativo è che in alcuni di questi luoghi le foto non sono ben fruibili. A Palazzo Prosperi Sacrati di corso Ercole d’Este e nell’Auditorium del Conservatorio di piazzetta Sant’Anna, ad esempio, l’illuminazione è praticamente assente. Resta il bello di una sfilata di fotografi che attraversa gli spazi riaperti di una manifestazione che vuole invadere Ferrara un po’ alla maniera di Reggio Emilia e del suo festival di “Fotografia europea”. Ecco allora i luoghi e i protagonisti che ci sono dentro, attraverso le immagini appese in parete e, in diversi casi, attraverso gli autori che ti raccontano le foto che hanno fatto.
Giovanni Cocco, il più emozionante. Composizioni quasi pittoriche, forti contrasti di luci e ombre, la materia sulla carta delle sue stampe così vera che ti sembra di poterla toccare. A Ferrara, Cocco espone le immagini del reportage dedicato alla sorella disabile “Monia”, un progetto che porta avanti da anni e che dà il titolo alla sua mostra allestita nel giardino segreto di Casa Romei, in via Savonarola 30. Lo spazio all’aperto del museo statale è perfettamente tenuto e curato, con due loggiati attorno al riquadro di prato con il classico pozzo in mezzo, ma di solito inaccessibile ai visitatori. Giovanni Cocco, nato 44 anni fa a Sulmona in Abruzzo, racconta che alle macchine fotografiche si avvicina già da bambino, perché il padre è un appassionato di fotografia. Così inizia usando la Canon di papà e impara presto a sviluppare in camera oscura i suoi lavori. Dalla Canon passa alla Nikon, ma comunque – racconta – “ancora adesso preferisco usare la macchina analogica. È un approccio diverso, più selettivo, quello della macchina con la pellicola, che scelgo soprattutto per i progetti di riscoperta di alcune città che sto portando avanti: a Venezia alla ricerca dei suoi luoghi solitari e non turistici, all’Aquila sventrata dal terremoto, ma anche a Berlino e Barcellona”. La scelta di diventare fotografo per professione, invece, la racconta ridendo: “A 25 anni l’ho scelto perché faceva figo! Poi è diventato il mestiere ideale perché in questo modo riesco a esprimere quello che non sono bravo a dire in altro modo, con le parole e nemmeno con la scrittura”.
Sara Munari, la più comunicativa. Famosa per il suo blog di fotografia, oltre a scattare foto per progetti che le stanno a cuore, è docente all’Istituto di fotografia di Milano. A Ferrara espone nell’area dove fino a qualche anno fa aveva la sede il Clandestino pub, in via Ragno 37, immagini scattate in Israele e Palestina. Se non ci fosse la spiegazione, risulterebbe difficile riconoscere i luoghi, perché la scelta – spiega Sara stessa – è stata proprio quella di fare panoramiche di spazi che potrebbero essere ovunque (campi da calcio, un’arena, viali, marciapiedi), aggiungendoci l’espediente di colorare l’area vitale delle persone che ci sono dentro, in modo da evidenziare lo spazio di distanza minima che di solito si tiene con gli estranei e che qui separa o unisce i diversi abitanti. Curioso il fatto che anche lei racconta l’approdo a questo mestiere quasi come un fatto casuale. “Mio padre è pittore e quindi cercavo di tenermi alla larga da mestieri artistici, perché sapevo quanto sarebbe stata dura. Poi, però, siccome lavoravo in negozi e attività stagionali estive, mi ritrovavo sempre senza nulla da fare nei mesi invernali e così ho deciso di impiegare quel periodo per studiare. Avevo pensato di seguire un corso di restauro. Invece poi ho scelto il corso di fotografia, semplicemente perché a restauro le iscrizioni erano già chiuse e ho iniziato a frequentare le lezioni senza neanche possedere una macchina fotografica. Dopo un anno qualcosa in me è scattato, ho comprato la macchina fotografica e da quel momento non faccio che usarla: fotografo, insegno fotografia e tengo un blog per parlarne”.
Danilo Garcia Di Meo, il più empatico. Un foto-racconto dedicato a una ragazza che diventata quasi completamente sorda, quello allestito nel negozio vuoto di via Garibaldi 1. Delle cuffie sono a disposizione del pubblico. Ma se le indossi non senti nulla. “Servono proprio a sentire il silenzio – spiega Di Meo – così hai una sensazione di mondo ovattato molto simile a quella che circonda la vita di Ambra”. Non ha ancora 30 anni Di Meo, ma già parecchi lavori e riconoscimenti per un’attività a cui si è avvicinato da bambino. “Mio padre aveva una Rolleiflex, sì quella macchina a forma di scatola che guardavi dall’alto” (come quella di Vivian Maier, ndr). All’inizio dice che faceva soprattutto scatti di paesaggi e cose inanimate. “Una volta superata la barriera della timidezza, ho iniziato a fotografare le persone e a raccontare le loro storie. E da quel momento non ho più smesso…”.
Gabriele Basilico, quello che manca di più. La mostra dedicata al reportage nelle discoteche è allestita all’Auditorium del Conservatorio di Ferrara, in piazzetta Sant’Anna. Basilico è uno dei maestri della fotografia italiana (milanese classe 1944, morto nel 2013) che firma reportage memorabili su architetture, persone, realtà sociali. Di suo, in mostra, c’è un’unica bellissima fotografia in bianco e nero di grande formato della serie “Dancing Emilia” del 1978: il ritratto a figura intera di una coppia d’altri tempi, pronta a esibirsi su una pista da ballo. Per il resto sono tutti scatti di fotografi che hanno voluto proseguire idealmente questa indagine (Andrea Amadasi, Hyena e Arianna Lerussi), e che hanno rinchiuso le loro immagini catturate tra le luci bluastre di discoteche dentro a plexiglass riflettenti, appesi nella penombra un po’ catacombale del teatro in rifacimento.
Fotografi-visitatori li trovi anche tra il pubblico qua e là, in giro per la mostra diffusa. Nel cortile della factory Grisù-ex caserma dei vigili del fuoco di via Poledrelli 21, c’è il grafico e responsabile del periodico online Listone mag Eugenio Ciccone. In sella alla bicicletta e con mega macchina fotografica Canon al collo: è autore di diversi scatti di documentazione del festival “Riaperture” diffusi e postati sui social. Nelle vecchie aule-ambulatori di corso Isonzo 21 il fotografo professionale Luca Pasqualini si aggira tra i ritratti saturi di colore e oggetti degli ambulanti del luna-park ritratti da Barbara Baiocchi. A vedere e ascoltare Sara Munari ci sono la fotografa Jessica Morelli, titolare di uno studio fotografico aziendale-industriale ferrarese, l’appassionato ed esperto di fotografia Paolo Soriani e l’autore presente in mostra Danilo Garcia Di Meo. Fotografo per passione, grafico e tra gli ideatori della bellissima iniziativa “Interno verde” che ha riaperto e presto riaprirà giardini pubblici e privati di Ferrara è Francesco Mancin, in giro tra le mostre diffuse insieme con Martina Stevoli, altra anima della manifestazione che tornerà a Ferrara in maggio.
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Giorgia Mazzotti
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