Rischiatutto. Si chiamava così il telequiz che Mike Bongiorno rese celebre con la frase: “Fiato alle trombe Turchetti!”. Si potrebbe ricorrere al titolo della storica trasmissione Rai fra il 1970 e il 1974, per tentare di leggere il senso dell’ultimo strappo di Matteo Renzi. Accelerazione che è costata il posto di presidente del Consiglio a Enrico Letta, al quale è stato emblematicamente fatale il giorno prima della festa degli innamorati.
Il segretario nazionale Pd ha chiuso la direzione del partito, spronando i suoi: “C’è un’ambizione smisurata che dobbiamo avere”.
Che Matteo Renzi avesse un’alta considerazione di sé si era capito da tempo, ma non è un ultras della curva Fiesole e c’è da credere che abbia considerato e soppesato ripetutamente tutti i pro e contro della mossa.
Perché le cose che non tornano sono parecchie in questa storia.
Intanto, da quel che sappiamo, accade solo in Italia che il premier sia sfiduciato dal segretario del suo partito, del quale tra l’altro Letta è stato numero due fino a ieri l’altro. Mica uno da quinta fila.
Secondo: ai comuni mortali come noi, gratta come un foglio di carta vetrata la consequenzialità vendutaci dai leaders Pd quando spiegano ai microfoni: “Siamo grati ad Enrico Letta per il lavoro svolto, eccetera, eccetera”.
Ma se ha lavorato bene, perché sostituirlo? E soprattutto non convince che Renzi abbia detto, come se niente fosse, che il suo esecutivo farà proprio il documento “Impegno Italia”, cioè lo stesso presentato urbi et orbi da Letta il giorno prima per rendere noti passi, scadenze e tempi, della propria azione di governo.
E poi c’è il quadro politico, che continua ad essere identico a quello che ha sorretto finora l’esecutivo di servizio. Cosa faccia credere, ora, che il sindaco di Firenze possa fare i miracoli che il suo predecessore non è stato in grado di fare, resta un mistero.
Soprattutto, non si capisce perché Matteo Renzi, che ha sempre legato il proprio destino politico al metterci la faccia e ad un percorso di legittimazione popolare, ora ceda ad una manovra di palazzo degna della prima repubblica.
Il suo essere fieramente sindaco, e cioè a contatto diretto coi cittadini, fuori dal Parlamento dove siede invece la politica del privilegio e dell’immobilismo al limite del bivacco, sembra ora clamorosamente smentita dal rigurgito di una logica tutta di potere da auto blu.
Ma allora, scartando l’ipotesi che sia uscito di senno, che cosa gli ha fatto dire “Stasera mi butto”, come cantava Rocky Roberts nel 1968?
In effetti, oltre alla sua ambizione effettivamente superiore alla media, esistono numerose pressioni che devono essersi fatte sentire.
Gira una frase di Beniamino Andreatta, il quale pare dicesse del suo pupillo: “Quando Enrico si trova davanti un problema lo accarezza”. Parole che descrivono bene il garbo, rispetto al quale sembra però giunta l’ora della mano pesante, visto il protrarsi della situazione economica e sociale italiana.
Soprattutto un segnale chiaro e forte si è avvertito quando mentre poche settimane fa il premier era ad Abu Dhabi per convincere gli investitori esteri che in Italia il peggio è passato e che adesso il paese si è messo di buona lena, il capo di Confindustria, Giorgio Squinzi, dalle telecamere di Lucia Annunziata ha detto che non va bene un tubo. E successivamente davanti ai suoi ha rincarato la dose: “Se ci date un paese normale vi facciamo vedere noi di cosa siamo capaci”.
Insomma, sono frasi che chiedono un deciso cambio di passo.
Più o meno la stessa lamentela espressa dalla Cgil di Susanna Camusso.
Che bisognasse premere il piede sull’acceleratore per un’azione più incisiva, ben oltre la linea ritenuta da tanti di galleggiamento, lo ha chiesto a Renzi anche la minoranza interna del suo partito, Cuperlo e compagnia, stanca che il Pd si sfibri sine die nel nome di una responsabilità nazionale, ma scontentando un elettorato scalpitante.
In questa pressione c’è anche il rovescio della medaglia. Se Matteo dovesse fallire sarebbe la sua fine politica e i rapporti di forza dentro il Pd tornerebbero contendibili.
Stessa cosa, più o meno, vale per il Cavaliere, il quale di fronte al disarcionamento di Letta non si è messo di traverso a priori.
Certo, qualche voce si è levata in nome del prolungamento del periodo di apnea delle istituzioni da legittimazione popolare e affinché la crisi sia parlamentarizzata, ma anche qui l’intenzione inconfessata è che, dato il livello altissimo di rischio, potrebbe farsi fuori da solo il più temibile competitor che in questo momento Berlusconi abbia di fronte sulla scena politica.
Esiste poi un motivo molto tecnico che spinge verso questa decisione.
C’è chi dice che il segretario Pd avrebbe potuto, visto che solo lui può imprimere velocità ad un sistema politico ingolfato, fare approvare in due e due quattro la nuova legge elettorale e poi andare ad elezioni per risolvere capra e cavoli: la sua legittimazione popolare, come ha sempre detto, e quella delle istituzioni troppo a lungo in astinenza da voto.
C’è un però in questo ragionamento. La nuova legge elettorale, l’Italicum, ha senso nel disegno renziano se parallelamente si cambia la Costituzione perché il Senato cessi di essere elettivo. Dato che la procedura di revisione costituzionale richiede almeno un annetto, se tutto fila liscio, cade di conseguenza la tesi del due e due quattro.
E non è finita. Diversi sussurrano che a primavera andranno in scadenza decine di incarichi ai vertici delle aziende pubbliche, tipo Enel, Finmeccanica ed Eni, il cui capo, Paolo Scaroni, si dice sia in ottimi rapporti con Renzi. Il fatto di essere in quel momento capo del governo cambia di molto le cose.
Infine, almeno in questo elenco, la questione Napolitano sollevata dal libro di Alan Friedman “Ammazziamo il gattopardo” (2014). Secondo l’analista finanziario del Corsera, dalla voce identica a Oliver Hardy di Stanlio e Ollio, il presidente della Repubblica avrebbe iniziato già dal giugno 2011, quindi ancora lontano dal famoso spread a 574, a sondare il terreno con Mario Monti per un avvicendamento a palazzo Chigi al posto di Berlusconi. Rivelazioni che destano vari allarmi: dal fatto che Napolitano abbia smentito tutto definendolo solo fumo, al fatto che dietro la manovra ci fossero alcune cancellerie europee (con il problema mica da poco della sovranità nazionale), a quello della democrazia messa a lungo in naftalina.
A parte coloro che continuano a gridare al golpe, gli stessi tra l’altro che hanno votato la rielezione (unico caso nella storia della Repubblica) di re Giorgio, ciò che molti hanno osservato è stato il timing dell’operazione sparata sui giornaloni italiani. La lettura diffusa data all’operazione, è che sia stato un segnale dato al capo dello Stato quale ultimo difensore di Enrico Letta, nel nome della stabilità.
Quindi un’altra manovra pro-Renzi.
Comunque sia, il segretario Pd ha ora su di sé tutta la responsabilità di non sbagliare e i rischi della forzatura sono altissimi. Il fatto che abbia voluto dare respiro alla sua azione fino alla scadenza naturale della legislatura, 2018, non lo mette al riparo da alcune scadenze che suonano inesorabilmente come primi difficili banchi di prova: le elezioni in Sardegna e le prossime europee di maggio.
Una cosa chiara è stata detta da Peter Gomez: se dovesse fallire, non ci sarà bisogno di consultare i sondaggisti per sapere che Grillo vincerà con il 51 per cento. In realtà le cose che dice sono due.
La prima è che Matteo Renzi si gioca l’osso del collo in questa rischiosissima partita a poker.
La seconda è che anche quelli che giocano sulla sua sconfitta non hanno da stare allegri.
La differenza è che in caso di perdita, non ci sarà Mike Bongiorno a dire: “Ahi, ahi, signora Longari”.

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Francesco Lavezzi
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