Rebeschini, il reporter amico di Prodi e dei Rom: “La fotografia? Un modo per incontrare le persone”
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A Mario Rebeschini piacciono le storie e piace la gente. “Sono diventato fotografo perché con una macchina fotografica in mano è più facile incontrare persone e riuscire a parlare”. Quel che lo anima non è semplice curiosità, ma reale sete di scoperta e di conoscenza. Il fotografo ha cominciato a farlo tardi, ma la passione l’ha nutrita fin da bambino. “Ho avuto un’infanzia complicata, sono cresciuto in collegio poi ho fatto apprendistato in una tipografia e sono diventato grafico pubblicitario. Al vertice della carriera ho mollato. E’ stato paradossale, ero appena stato professionalmente gratificato per la creazione dello slogan di un’importante campagna. Due ore dopo mi sono dimesso. Mi dissero: sei matto? Ho replicato: già è folle non dormire per una saponetta, ma per una saponetta neutra è proprio inconcepibile! Così, a quarant’anni ho ricominciato da zero, senza lavoro con tre figli a carico e una moglie a casa. Ho acquistato la mia prima Nikon ed è cominciata l’avventura”.
Cosa significa per lei fotografare?
Conoscere gente, incontrare persone, entrare nelle loro vite. Io non so niente di tecnica (in realtà ne so! – precisa – ma non è così importante), quel che a me interessa è mostrare i volti, penetrare le emozioni. Mi interessa la storia.
Lui non lo ammette, schiva la domanda, ma la sua grande capacità è di entrare in sintonia, di farsi accettare, ed è frutto della profonda umanità che traspare fin dal suo sguardo. Rebeschini è un uomo buono e sincero e il suo volto è una dichiarazione d’intenti. Le persone si fidano di lui, gli aprono la porta e gli spalancano il cuore, si mostrano e si raccontano. Così è diventato il fotografo di Romano Prodi, degli immigrati, degli esclusi: rapportandosi a ciascuno con sincero rispetto. Il suo è un mondo colorato, pieno di vita e di passione.
Il bianco è nero non le piace vero?
No, non mi piace: il mondo è a colori e io voglio rappresentarlo per quello che è. Uso il bianco e nero solo quando… voglio darmi un’aria da intellettuale!
C’è un fotografo in particolare che ammira?
Sì Josef Koudelka, cecoslovacco, fa le foto che vorrei fare io. Per lui la fotografia è una missione, non è poesia. E’ un esule, fuggito dal regime, ed è un testimone che racconta vicende umane. Odia essere definito un artista. Io la penso come lui, la mia non è arte: io faccio fotografie, ritraggo momenti di vita. Certo, avere fatto il grafico pubblicitario mi aiuta a capire come costruire l’immagine.
Come ha iniziato?
Con il Carlino dalle valli imolesi, come fotoreporter. Andavo in giro e per la gente ero ‘il giornale’. Mi piaceva… Non ho mai fatto solo fotografie, sono anche giornalista, ho sempre scritto e raccontato le storie che ritraevo sulla pellicola. Diverso è nei libri, lì sono le foto che parlano…
E’ spesso citato come il fotografo del Po, fautore della sua riscoperta. Perché?
All’inizio degli anni settanta ho trascorso parecchi giorni in barca per conoscere il fiume. Il Po allora era per tutti solo zanzare, povertà, tristezza, inquinamento. Io invece sono rimasto incantato dai paesaggi e dalla luce: miseria non ne ho vista. Ho visto invece posti fantastici nel Delta: Scanno boa, l’isola dell’Amore, l’isola di Bastimento. E sono uscite foto pieno di colori, di vita, di allegria: un libro bellissimo.
Di libri ne ha pubblicati tanti, eh?
Sì, una ventina credo. La gente, la fede, il fiume, i cavalli… Ecco, anche nel caso dei cavalli ho sovvertito il modello tipico di ripresa che mostrava cavallo e cavaliere in pose plastiche, da ritratto di vecchia aristocrazia. Io invece ho ripreso la realtà. Sono andato persino sull’Aspromonte con i carabinieri per fotografare i loro inseguimenti, ho fotografato i cavalli nella loro bellezza naturale, senza finzioni.
Un libro che non volevo fare, invece, era quello di un’importante azienda che doveva celebrare il suo anniversario: fabbricava tir, ma a me non interessava e ho rifiutato. Poi dopo molta insistenza ci siamo accordati, decidendo che oggetto del servizio non sarebbero stati i camion, ma i viaggi reali compiuti con quei mezzi e con i loro autisti. Ho girato parecchio, l’obiettivo puntato sul mondo dei trasporti: ne è uscito uno dei volumi più belli che abbia realizzato.
Un suo libro al quale è particolarmente affezionato?
“La città nella piazza”, mostra come cambia l’uso e la vita degli spazi pubblici ora dopo ora nel corso di una giornata. A questo libro è legato anche un episodio particolare. C’era una certa attesa per l’uscita e varie istituzioni ne avevano prenotate in anticipo parecchie centinaia di copie come si usa fare per calibrare la stampa di questi volumi che sono piuttosto costosi. All’atto di pubblicazione, nel 1983, le foto degli scontri di piazza diedero fastidio e il Comune revocò il suo ordine dicendo ‘non è questa l’immagine che vogliamo dare della città’. Ci rimasi male. Con Imbeni, il sindaco di allora, ebbi però modo di collaborare in seguito e ne scoprii anche l’umanità. Lo convinsi a incontrare sinti e rom che io frequentavo abitualmente e nacque fra lui e alcuni di loro una buon rapporto e con Floriano Debar una bella amicizia, al punto che hanno continuato a vedersi anche con le mogli.
Ora ho da poco completato un nuovo lavoro Il mio prossimo libro uscirà a maggio: “Professione taxista”, con prefazione di Romano Prodi
A proposito: lei è stato al seguito di Romano Prodi nel tour delle 100 città quando per la prima volta, nel 1996, vinse le elezioni diventando presidente del Consiglio…
Vero, ma a me allora non interessava Prodi, interessava il viaggio. Grazie a Gabriella Berardi, direttrice di ‘Schema’ la magnifica rivista con la quale collaboravo e attraverso la quale ho scoperto i grandi fotografi del mondo, ho potuto contattare lo staff di Prodi e ho avuto la possibilità di viaggiare con lui per tutta l’Italia. La prima volta che salii a bordo mi dissero: questo in fila tre è il tuo posto; qui su sentirai molte cose, alcune usciranno il giorno dopo sul giornale altre non usciranno mai, tu tieniti tutto per te. Così ho fatto. A me non interessava la politica, volevo scoprire i luoghi che visitavamo e chi li abita. Rispetto agli altri fotografi che hanno seguito il tour del futuro premier, le mie foto si differenziavano: avevano sempre un punto di vista particolare, un angolo di osservazione originale. Io non guardavo il ‘leader’, guardavo la gente che guardava Prodi.
Viaggiando con lui si sarà fatto un’idea sull’uomo sul politico?
Sì, e sono rimasto sorpreso: lui non corrispondeva all’idea del politico ideale che avevo in testa. Ma dopo mesi di frequentazione in cui vedi una persona da mattino a notte e lo senti in centinaia di interventi e di colloqui, ti rendi conto se ciò che dice e autentico, se l’uomo è sincero. E lui lo è. E nei suoi comportamenti ha dimostrato di essere coerente con le idee che professa. Ho imparato ad apprezzarlo e ho maturato un’autentica ammirazione per lui. E’ una brava persona.
Il viaggio l’ha sempre attratta e lei ha viaggio parecchio…
Sì, molta Africa, un po’ di America latina, Cina, Corea e un pezzetto di Medio oriente.
In Libano è stato pure sequestrato due anni fa. Paura?
Insomma… Mi tremavano le gambe, ma tutto si è risolto in fretta per fortuna. Ero con altri tre giornalisti e dodici militari su un mezzo dell’Onu. Ci ha fermato un gruppo ribelle che ha compiuto la propria bravata con il plauso della popolazione. Ma alla fine il danno si è limitato al sequestro delle attrezzature e in serata eravamo liberi.
E mostre?
Ogni tanto ne faccio qualcuna. Ma non mi entusiasmano, sono celebrative, piacciono di più ad amici e parenti. Le mostre sono belle se fatte in piazza, in strada o nei supermercati… La mia preferita è quella che mi hanno dedicato in Brasile, con le foto esposte ai lati della scala mobile di un centro commerciale.
Coerente. La fotografia è incontro. E deve stare fra la gente.
Le foto della galleria sono di Mario Rebeschini. Diritti riservati
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Sergio Gessi
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