Racconti italiani al teatro Off: Maria Paiato legge Landolfi e Flaiano
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Giuseppe entra in una casa di cura per guarire da un leggero malessere. Anna si trova di passaggio in una città straniera. Quello che succede a due persone comuni dopo l’incipit è grottesco, forse strapperebbe un sorriso a Marco Ferreri.
Anna e Giuseppe sono i protagonisti di “Sette piani” e “Non aspettavano altro”, i due racconti di Dino Buzzati letti da Maria Paiato in una delle serate dedicate dall’attrice italiana – premio Duse e due volte Premio Ubu – alla narrativa italiana, dal titolo “Racconti italiani”, nella stagione da poco inaugurata di Teatro Off di Ferrara.
Il fantastico e il surreale, chiavi di lettura adatte per gli universi di Buzzati, si alternano parimenti nella serata. Giuseppe e Anna sono allora due vittime inconsapevoli e sopravvissute (ancora per poco), o forse solo due problematici inetti, non capaci di ribellarsi a un destino ha già deciso per loro?
Nell’interpretazione dell’attrice trovano spazio tanto il kafkiano e forse incolpevole protagonista, quanto il carnefice che lo rinchiude in uno spazio entropico di silenzio, o in uno dilatato da urla e pregiudizi, con la precisione chirurgica di un bisturi, dove l’incapacità di intendersi tra il protagonista e chi gli sta intorno è un problema linguistico e semiotico.
“Amo i testi che ho scelto perché amo i loro autori, che rappresentano una letteratura del ‘900 poco frequentata e che vale la pena riscoprire” racconta l’artista.
Nel primo racconto Giuseppe Corte, un avvocato il cui cognome è svergognato da ciò che subisce, sente niente altro che che un leggero malessere diffuso nel corpo entra in una linda casa di cura dai sette piani in cui la parola d’ordine è gerarchia: dall’alto verso il basso, la salute dei pazienti va lentamente scemando dal settimo al primo piano.
Barbablù è dietro l’angolo, non ci si può sottrarre alle regole del bizzarro ospedale; e così
Tra il processo del signor K e la metamorfosi di Gregor Samsa si avvia la fine dell’avvocato che di piano in piano trova la sua fine. Ogni volta per un motivo diverso, per una scusa diversa, Giuseppe passa di giorno in giorno dal piano più alto, un panottico ombelico del mondo con vista sulle fronde verdi e opulente, a quelli intermedi (compreso il temutissimo quarto piano di quelli che non sono né sani né gravissimi, una sorta del dantesco “cammin di nostra vita”), in mano a medici negligenti e lassisti, mentre la sua salute va inspiegabilmente peggiorando e da un semplice eczema arriva presto all’ora dell’addio, steso su di un letto dal quale si vede il mondo fuori diventare più scuro, le chiome degli alberi nascoste per sempre. Come avvolto nel suo sudario, il malato non più immaginario spira vaneggiando nel buio, in un letto al primo piano, in cui si trova per una serie di sfortunate coincidenze; oramai tagliato il flebile cordone che separava lui, “quasi sano”, da tutti gli altri, “malati”.
Immanente discesa lenta e inesorabile, lontana dal buffo mistero di una discesa verso l’ignoto, l’ospedale accoglie un progressivo mutare delle stagioni dell’uomo fino al capitolo finale, dove il letto diventa simbolo della bara. “Questo racconto è una metafora della vita: l’ultimo passaggio del testo racconta delle finestre che si chiudono ermeticamente, fino all’ultima: la fine è giunta”.
Il secondo racconto vede la viaggiatrice Anna che si ritrova con l’amico Antonio in una città straniera. Chiede un bagno, ma stranamente non lo trova, nessuno sembra disposto a cederglielo.
Il suo bisogno negato e il suo legittimo tentativo di essere ascoltata le valgono un pubblico linciaggio, morale e fisico. Quella folla che la osserva prima stranita esprimersi in italiano standard a fronte del dialetto popolano si rivela poi inferocita arrivando al linciaggio, sotto l’incredulità immobile del suo compagno di viaggio. Straniera in terra consolidata, sfida le regole bagnando un piede nella fontana riservata ai bambini mentre la canicola estiva non impedisce agli abitanti di restarne religiosamente ai bordi, bagnandosi solo le mani. La straniera sfida non tacitamente le regole più e meno tacite della comunità e mette il piede in acqua; alla richiesta di toglierlo, non cede e continua imperterrita. La situazione però precipita all’improvviso: è presa di peso e punita per quella sua limpida presa di posto di sé contro il mondo, che si rivela popolato di mostri ben nascosti sotto spoglie di persone per bene, persino tranquille.
La folla inferocita è la stessa delle esecuzioni seicentesche, dei linciaggi dei neri americani negli anni Trenta negli Stati Uniti; ma è anche quella da cui metteva in guardia Elias Canetti del capolavoro sociologico “Massa e potere”.
La timida richiesta iniziale di Anna è seguita dalle urla e si chiude con un nuovo silenzio, questa volta sintomo inequivocabile di morte. Le braci sono ormai spente, si vede solo levarsi un fil di fumo che non è sinonimo di speranza ma del resto di un pasto feroce. “In questo racconto c’è tutta la ferocia dei totalitarismi che hanno devastato il secolo scorso, in cui l’essere stranieri decretava una vera e propria esclusione dal gruppo, dalla società”.
Le letture del ciclo “Racconti italiani” di Maria Paiato proseguiranno domani sera a Teatro Off con testi di Tommaso Landolfi e il 30 ottobre con testi di Ennio Flaiano.
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Giorgia Pizzirani
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