Racconti della domenica. “La Fabbrica della felicità”. Ep1.
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Il “mestiere” della scrittura è quanto di più antico e affascinante l’uomo sia riuscito a coltivare e a migliorare nel corso dei secoli. Sebbene al giorno d’oggi ci siano tante persone che tentano di mettersi in gioco nell’ambito della composizione letteraria, i lettori tendono sempre a preferire o se non altro a guardare più di buon occhio gli “addetti ai lavori”. I generi letterari che sono andati diffondendosi nel corso della storia letteraria sono davvero innumerevoli. Dall’avvento della stampa a caratteri mobili ideata dal tedesco Gutemberg nel 1455, la diffusione dei volumi stampati è divenuta sempre più agevole, efficace e poco dispendiosa. Certo, nell’era dell’ebook parlare di stampa a caratteri mobili del XV secolo fa sorridere, però quello è stato un passaggio fondamentale per arrivare al punto in cui ora ci troviamo con la tecnologia. La praticità e la possibilità di avere tanti volumina in un solo schermo della grandezza di una manciata di pollici è sicuramente interessante, ma per fortuna, i cultori del libro preferiscono ancora la carta stampata. Anche nell’ambito dell’editoria il mercato è cambiato profondamente, e quindi certe case danno l’opportunità di pubblicare un testo solo in formato digitale, in particolare se si tratta di un racconto o di una novella, come nel caso della “Fabbrica della Felicità che appartiene ad un ambito un po’ atipico. E’ molto difficile inquadrare un racconto di questo tipo. Forse è ascrivibile a quel filone compositivo da me invocato come esigenza nuova in un articolo precedente a questo su un’altra testata:”Una letteratura imprenditoriale”. http://ildenaro.it/component/k2/319-culturamente/71993/un-esigenza-nuova-una-letteratura-imprenditoriale
Questa novella/racconto breve è stata composta da Nicola Farronato, giovane amministratore delegato di una star-up innovativa con sede a Dublino, ed è un po’ il fulcro di ciò che significa per l’autore fare impresa, lavorare: Smile at work. La “Fabbrica della Felicità” è infatti una sorta di un’utopistica fabbrica all’interno della quale i rapporti interpersonali sono stabiliti e rispettati in una forma di rispetto reciproco ove nessuno prevarica l’altro, e nella quale tutti svolgono il proprio lavoro in maniera serena. Ciò che si evince dalla lettura del racconto è una volontà di ribaltamento dello status quo di come ora sono concepite le aziende e le fabbriche. In particolare l’aspetto che emerge in maniera preponderante è che al centro dell’attenzione e il focus della vicenda è costituito dal rispetto della persona e dalla tutela delle sue emozioni e della sua peculiare personalità. Traspare quindi una velleità di ritorno agli antichi rapporti interpersonali, antropocentrici, non macchinocentrici. ” La Fabbrica della Felicità ” è estremamente autobiografico come racconto, infatti attraverso la figura del giovane Lucien, si ritrovano molte caratteristiche dell’autore.Si può quindi dire che questo racconto sia una sorta di manifesto di come Nicola conduca la sua attività e di quello che in generale differenzia il mondo dell’innovazione e delle start-up dal mondo delle “aziende tradizionali”.
Di seguito cap.1
La Fabbrica della Felicit@’
© 2009 Nicola Farronato
Finito di scrivere a Londra
nel mese di Settembre 2009
alle ore 12:00 CET
30 Settembre 2009
“Stavo guardando il mio orologio, quando ad un tratto…
Ma come: io non porto l’orologio! – Sono più di vent’anni che non lo porto, non ricordo nemmeno
più quando è stata l’ultima volta.
Eppure se mi fissavo il polso mi pareva di vederlo. Era fatto strano, una forma circolare con delle
linee poco nette, frastagliate quasi, che sfumavano in tutto e in niente a mano a mano che lo
sguardo si avvicinava alla linea del bordo. Il quadrante sembrava parlare, e il suo contorno aveva
le parvenze di una bocca, che a seconda della posizione delle lancette a volte pareva sorridere,
altre volte imbronciarsi, e tornare cerchio chiuso.
Il mio orologio faceva le 33. Il quadrante mostrava solo due riferimenti, uno specchio dell’altro.
Più lo fissavo e più mi rendevo conto di come fosse vero. Come il futuro, che parte dai giorni
vissuti e ti batte alla porta ogni oggi per avvisarti che lui c’è.
Era passato appena qualche attimo, almeno credo, ed io ero stato benissimo a tratti, e malissimo a
segni alterni. Nel mezzo tempi di poco conto, neutri di indifferenza.
Il mio orologio aveva segnato il 33° giro, proprio nell’istante in cui stavo cercando di fare un
bilancio di tutto, dal chi ero a quali ruoli avevo, dai sentimenti in cui credevo, ai miei grandi
sogni. Non riuscivo a venire a capo di quel complesso girotondo di voti che la mia memoria
riportava ora alla luce.
Andavo cercando la strada da seguire adottando punti di riferimento che misuravano sempre il
dopo, le cose già passate. Intuivo che l’anticipazione sarebbe stata addirittura più importante del
reale consumo di esperienza.
Avrei voluto ritornare bambino, proprio in quel momento. Sapere cosa andavo cercando.
Arrampicarmi sulla scala delle mie emozioni, tenendo su una mano l’agenda dei miei ruoli e
sull’altra la penna dei miei sogni.
Desiderare solo ci che mi faceva veramente piacere. Essere ricco. Di felicità.”
03:10 La Fabbrica della Felicit@’
Le fabbriche ad inizio del secolo scorso vivevano in condizioni contingenti: necessità, innovazione
tecnologica e produzione di massa premevano come fanno le priorità in agenda. Il legame dava
un effetto preciso: l’uso del tempo avveniva davvero cercando lo sfruttamento di tutte le sue ore; la
persona subiva il tempo, degli oggetti prima, delle macchine poi. Non vi era nemmeno una vaga
percezione di gestirlo, il tempo, a livello individuale. La piramide di riferimento che faceva
scorrere l’orologio era quella di prodotti-macchine-bisogni primari. In quel contesto la forma del
tempo era monolitica, fatta di poca distribuzione e altrettanta poca dispersione. Di emozioni, in
quel contesto, si parlava gran poco.
L’avvento dei servizi legati alle fabbriche fece evolvere il modello di orologio rapidamente. Ora
non era più il prodotto a dettare il tempo, tanto che all’inizio i servizi parevano migliorativi. Non
ci si sporcava più come prima, i rapporti tra le persone avevano una natura più relazionale;
c’erano strumenti nuovi, c’era nuova comunicazione tra gli stessi individui. Alla fine il mercato
forzava per lavorare al di fuori dei ritmi classici dell’epoca, e soprattutto a non guadagnare di più,
alla nobile insegna dello standard di servizio. I concorrenti erano disponibili tutto il giorno,
sfiorando talune volte il suo cerchio intero.
Quello che si vide dopo, al terzo rintocco della grande evoluzione della fabbrica, era sorretto dalla
speranza che la nuova piramide micro-cyber-hi*tech avesse potuto liberare dall’affanno delle sole
ventiquattro ore, a scalzare finalmente quella vecchia concezione, di inizio secolo.
Ma il sogno sfum presto. Nuove tecnologie uscivano a ritmo di un giro grande di orologio, e ò
ciascuna premeva affinchè i tempi di reazione, risposta ed esecuzione si accorciassero. Le
riflessioni sulle decisioni erano ora supportate da nuovi modelli e metodi, talvolta strumenti, che
toglievano la percezione del tempo anche a quei pochi istanti.
Lucien, nella sua giovane esperienza, poteva contare di aver trascorso frammenti in ciascuna di
queste dimensioni, e per ciascuna aveva ben chiaro un collocamento. Il controllo del tempo della
fabbrica industriale era dato dalla pressione emotiva che il capo reparto imprimeva alla sua
produzione, ricevendo e accettando impartizioni di ritmo da efficacia ed efficienza. Parametri non
sempre chiari, e spesso unilaterali, facevano da padroni del tempo che scorreva in questo
ambiente. I servizi, che con il tempo classico condividevano la forma semi-solida, avevano
sicuramente aperto margini di autonomia maggiori circa l’organizzazione del tempo,
aumentandone peraltro la dispersione, in una serie di attività non ben definite e spesso non
focalizzate. Erano troppe le interruzioni ai rapporti che si intromettevano al regolare andamento
degli ingranaggi. Così tante da far perdere, a volte, persino la motivazione agli stessi.
”L’Hi*tech port del nuovo tempo a disposizione, teoricamente, in quanto tecnologie superiori
erano in grado di evitare delle lunghe attività manuali e fisiche, spostate ora nel virtuale. Facendo
fare lo stesso prodotto in meno tempo o più prodotto nello stesso, la ricchezza era accelerata e
amplificata, ma il valore personale messo ancora di più in dubbio. Lo strumento, sia hardware che
software, le telecomunicazioni e l’iper-mobilità erano esplosi, dando all’individuo la possibilità di
frammentare ancora di più la sua quota a disposizione. Tutto ci per arrivare a connessioni ò
ubique e maggiore libertà di uso del tempo, esso stesso iper-bombardato da messaggi e inputs,
quasi come impazzito, da sembrare tanto nelle premesse, quanto tiratissimo nella realtà.
Poter usare quella stessa fabbrica appesa al chiodo dei primi anni del secolo, poteva essere forse
un buono spunto per perseguire la felicità?
Queste parole si rincorrevano nella mente di Lucien quando egli fantasticava sul futuro, con l’idea
fissa di rileggere creativamente il tempo di quelle fabbriche, sin da quando accompagnava il
padre alla sua, e gli domandava perchè sia lui che il nonno erano sempre seri quando era ora di
andarci.
Cosa si poteva dunque osare con immaginazione e creatività giocando e fantasticando sul futuro?
Di fronte alla sfida il ragazzotto era assai stimolato, sapeva di dover rimediare una certa dose di
inventiva nell’affrontarla. L’idea di questo nuovo e insolito scorcio, a cavallo di un secolo di
pionieri e nuovi confini tracciati e stracciati, aizzava la sua vivida immaginazione, e quella
domanda gli risuonava come il ticchettio di una voce all’orecchio. Sentiva con tepore, dentro di
lui, che era ora di aprire un nuovo capitolo sulla trasformazione della fabbrica, nel futuro
prossimo. Il suo pensiero correva ad una fabbrica della felicità.
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Federico Di Bisceglie
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