Come fa la poesia a sembrare altro? A commutarsi in lettera, racconto, dedica e persino telegramma? Responsabilizzando la parola – o meglio – l’emozione di chi la scrive. Difficile a dirsi, peggio ancora a farsi. Bisognerebbe dare più tempo al senso di quel che si scrive; l’emozione, lasciarla crescere nella mente, senza fretta, e poi operare con la precisione e la razionalità di un lavoro chirurgico. Sapere da cosa si vuol partire è sostanziale, almeno quanto essere consapevoli di come e soprattutto dove si vuole arrivare.
Sì, perché le parole, anche quelle cancellate, comportano consumo d’inchiostro e il peso della decisione del poeta. E per sapere da cosa si vuole partire, bisogna scegliere. Questione di ‘genere’ o di ‘generi’, un argomento di non poco conto, oggi più che mai. Ma la scelta, se si indentifica in una categoria, lascia ben poco spazio all’emozione. E quando si parla di letteratura, l’emozione è quanto di più importante da cercare e il senso sta proprio nel trovarla. Poesia o prosa?
C’è chi direbbe “una prosa che guarda alla poesia” (Giampiero Neri) e altri che direbbero il contrario. Perché spesso si guarda alla poesia come a un cadeau prezioso da salvaguardare, da tenersi stretti morbosamente per la paura che si sciupi o che una volta regalato al prossimo possa arrivare guasto. Per questa paura e per una sorta di galoppante competizione tra i poeti (che invece dovrebbero sentirsi parte della stessa famiglia), la poesia è diventata una forma elitaria di comunicazione, creata in solitudine, letta e recitata solo in circoli di addetti ai lavori, ai quali poco interessa misurarsi con la gente comune e soprattutto con gli altri poeti. Non c’è defraudazione in uno scritto che giunga al lettore, c’è solo collaborazione (si spera) e partecipazione.
Di scelta si tratta anche in questo caso; avere orecchie, ascoltare oppure rimanere chiusi trincerati verso il diverso, il nuovo, l’altro. Forse che il pubblico sia considerato troppo insensibile a questo ‘dire’ (e un po’ è anche vero di questi tempi) o forse che la poesia abbia perso la sua funzione più alta di ponte tra le genti, per diventare muro invalicabile dietro il quale trincerarsi, tra applausi di poeti complici e compiacenti?
‘Ho sempre aspirato a una forma più capace, che non fosse né troppo poesia né troppo prosa e permettesse di comprendersi senza esporre nessuno, né l’autore né il lettore, a sofferenze insigni’ (Czesław Miłosz). Un genere che descriva e ci descriva con l’autenticità di panni che ci calzino a pennello, senza falsità né ipocrisia, con la stessa purezza della nudità. Una poesia che parla davvero, come parla davvero la prosa. Fatta anche di semplicità perché “La sola letteratura possibile del futuro sarà autobiografica” (Jack Kerouac). E cosa c’è di più autobiografico della poesia? Anche quando non si parla della propria vita, ma del modo di viverla e vedere le situazioni, sentirle prima di tutto?
Allora cosa c’è di male nell’ibridazione? L’ibridazione del genere letterario, che invece sembra stantio, chiuso a schierarsi o da un lato o dall’altro, senza lasciare spazio alla comunicazione spontanea, ma solo a schemi, preconcetti e classificazioni. E l’emozione? La fantasia emotiva che sola è fonte di creazione, commistione e libertà? In tempi di pensiero dicotomico, o tutto nero o tutto bianco, o maschi o femmine, o vax o no vax, o green pass o no green pass anche la letteratura diventa o poesia o prosa, o volo pindarico o best seller di successo.
Ma se è vero che neppure le forme letterarie prescindono dalla Storia, e non possono essere analizzate astrattamente, il poeta “concepisce la letteratura come dialogo con il mondo, con il lettore e con me stesso” (Octavio Paz). Una visione di democrazia: “lo scrittore laico che comincia per noi dai greci, mette in discussione il mondo al cui interno la società si è creata”, altrimenti risulterebbe impossibile fondare la società stessa, la quale non è fissa e immobile ma cambia in conseguenza del pensiero critico che nasce dal dialogo con gli altri uomini. “Così facendo (lo scrittore) partecipa in modo essenziale all’instaurazione della democrazia, senza la quale, del resto, egli stesso non sarebbe possibile o concepibile”.
Vivere nel proprio tempo con i propri mezzi comunicativi, perché “non si può chiedere al poeta di essere un militante politico, ma che è giusto attendersi da lui che sia interno al proprio tempo, che sappia ascoltare la storia mentre si fa e i suoi contemporanei, che parli di ciò che sta loro a cuore’ e cosa più rilevante ‘che metta in dubbio gli obbiettivi più importanti’ (Cornelius Castoriadis).
Forse la poesia deve mettere in dubbio, tramite l’emozione, forse la sfumatura migliore è il grigio, e tutti gli altri colori con le loro sfumature… riusciremo a non averne più paura?
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Ambra Simeone
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