Negli sguardi dei miei studenti con frequenza scorgo un riflesso in precedenza raro: lampi di consapevolezza che si saldano alla volontà di non rassegnarsi. È qualcosa che fa ben sperare.
Parlo di ventenni, ragazze e ragazzi forse non a caso nati dopo il crollo del Muro. Ai dogmi con cui in passato molti si facevano scudo, sembrano preferire la voglia di sperimentare e la capacità di mettersi in gioco. Non sarà così per tutti, magari. Ma in maggioranza manifestano questa propensione. È forse un riflesso della meglio gioventù in una nuova epica di “scarpe rotte eppur bisogna andare”.
Appena qualche anno fa, agli albori della crisi, i loro coetanei parevano sentirsi semplicemente vittime di una situazione avversa, insoddisfatti e al tempo stesso incapaci di reagire.
Dai “bamboccioni viziati” (i trentenni evocati da quel tal ministro), si era passati direttamente ad adolescenti e giovani che vivevano la dura condizione capitata loro in sorte come una dannazione alla quale si mostravano del tutto impreparati a opporsi. Comprensibile. Più ancora, i loro stessi genitori apparivano spiazzati dagli eventi, incerti sul da farsi e incapaci di ripensare se stessi.
Quest’ultima generazione, invece, sembra paradossalmente riuscire a vivere la crisi come un’opportunità. Si stanno riorganizzando, i nostri giovani, fanno fronte alle difficoltà non con rabbia ma con fantasia, talvolta anche l’allegria e la spregiudicatezza di chi sa che è dura ma vuole e deve farcela. Di chi ha capito che il mondo vecchio è sbagliato e si sta attrezzando per immaginarne e poi costruirne uno nuovo, diverso.
Se i soldi non bastano per pagarsi un affitto, come già capitava ai loro predecessori, differente è lo spirito con cui si condivide lo spazio: non più quello di chi si rassegna e si adatta in attesa di trovare di meglio. Questi sembrano mettere volentieri in comune le loro due cose con colleghi di appartamento che diventano anche compagni di vita e non sono percepiti come fastidiosi intrusi ma come sodali di un’avventura da vivere insieme in spirito di reciproco sostegno. L’ambizione non sembra più essere quella di imporsi sugli altri, ma di rialzarsi assieme agli altri.
Certo, è sbagliato e ingannevole operare generalizzazioni, ma si percepisce che qualcosa di nuovo sta avvenendo: si delinea una tendenza.
Non si coglie la frustrazione per la difficoltà di emergere individualmente; si ragiona invece in termini di comunità, di gruppi, di reti. In questo, forse, gioca un ruolo positivo anche la pervasività dei social network, che stanno strutturalmente abituando gli individui a concepire lo sviluppo non come una meta individuale ma come un traguardo di gruppo. E lo spazio d’azione e di espressione non è inteso come ambito privato, ma come luogo pubblico, permeabile, accessibile.
Per questi ragazzi la ‘condivisione’ sembra davvero un valore prezioso e praticabile. Si sta passando dall’affermazione del singolare al plurale, dall’egoismo dell’io alla considerazione di una dimensione collettiva, secondo i principi della cosiddetta ‘sharing economy’. Mettere in comune, far fronte insieme. In quest’epoca di incertezze si sta definendo un atteggiamento resistenziale coniugato con uno slancio positivo, solidale, anti-individualistico, in cui conta il collettivo, il gruppo: non il singolo ma la comunità.
Così si afferma una nuova convinzione: si vince o si perde tutti insieme. Che pare un modo maturo ed eticamente apprezzabile per affrontare la vita. Insomma, i grandi sembrano loro.
Sta forse crescendo una ‘Generazione Noi’. Ed è quanto di meglio ci si possa augurare per iniziare bene il nuovo anno.
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Sergio Gessi
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