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Amico fraterno, credente disarmato e trasparente nel sorriso, Enzo* svolgeva un ministero tra la gente, silenzioso e nascosto ai più, frutto di un’obbedienza libera alla vita e alla Parola. Dal suo diario, proteso alla ricerca della sua e nostra umanità e del volto umano di Dio che in essa si cela, traspare il profilo di un mistico ‘anonimo’, che si faceva ospitale ad un “Dio che ama l’imprevisto, perché non ci può essere amore senza libertà”. Egli ricordava spesso le parole di Charles de Foucauld: “Mio Dio! Se esistete, fate che vi conosca”.

Sto curando l’edizione degli scritti di Enzo Demarchi e del suo diario, che mi ha lasciato (insieme alla sua biblioteca), come fosse una traccia per un cammino da proseguire con lui, che resta nascosto e vivo in me.

Di questo diario mi ha colpito, fra le tante, una pagina del 1960, scritta con una intensità e una simbolica, che accosterei alla mistica carmelitana. In particolare essa mi ha spinto a riflettere – parafrasando le sue parole – sul fatto che “non ci può essere obbedienza senza libertà”. Ecco il testo: “Dio mi fa sentire la sua schiacciante presenza, Dio mi prende e mi strazia, mi scioglie. Perché io non vorrei più essere nulla! In questi momenti è come se una misteriosa fiamma s’accendesse dentro e tutto, tutto il mondo improvvisamente perdesse consistenza, o meglio, acquistasse un senso di gratuità, di contingenza per aprirsi ad ogni istante su una Presenza Indicibile. Tutto diventa stranamente leggero, e senza il significato di ‘sempre’, prendendo il suo ‘vero senso’. Allora gli avvenimenti vissuti, le preoccupazioni che affliggevano l’anima divengono episodi tra parentesi. Si capisce! E un grido spontaneo sorge dal cuore: “Signore! Per questi istanti posso anche perdere tutta la vita. Tutto come Tu vuoi! Tu!”. … Il male sembra avere proporzioni così gigantesche! Ma è tutto opera dell’uomo, e cade di colpo appena l’anima umana dice un timido ‘sìal suo Salvatore! Ed è solo questo che Dio attende. Crediamo troppo al male, perché siamo troppo orgogliosi. Lo mettiamo alla pari col bene. Stesso peso. E non comprendiamo più nulla dell’avventura, dello scacco ‘appurante’ cui Dio si sottomette, col suo ‘scandaloso’ rispetto della libertà umana“.

Ecco la libertà, quella di Dio all’uomo, a immagine e somiglianza della sua, che nasce da un timido ‘sì’, il nostro, da lui atteso e sperato; libertà scaturita dall’obbedienza nostra alla vita; un ‘sì’ al suo mistero che vuole uscir fuori e parteciparsi, rischiandosi nella relazione con un’altra libertà. Un ‘sì’ primigenio, primordiale quello di Dio perché ‘in principio’ (Gn, 1,1), – nel suo cuore da sempre –  egli ha amato per primo; un ‘sì’ che in Gesù – come scrive l’apostolo Paolo – non si è mai mutato in un ‘no’: “Il Figlio di Dio, Gesù Cristo, che abbiamo annunciato tra voi, io, Silvano e Timòteo, non fu ‘sì’ e ‘no’, ma in lui vi fu il ‘sì’. In lui, infatti, tutte le promesse di Dio sono ‘sì’ ” (2Cor 1,20).

Ma non è stata solo libertà a generare l’obbedienza di Gesù, il suo libero ‘sì’ al Padre e a noi. La sua è una “libertà plasmata dall’amore”, che si fa responsabile dell’amore ricevuto traducendosi nel ‘sì’ a colui che lo ha generato, per riflettersi poi nel ‘sì’ pronunciato su di noi: un ‘sì’ fattosì carne e sangue, storia di umanità.

Da questa libera scelta di amore erompe l’obbedienza, che altro non è, in questa prospettiva, se non ascolto della vita che si incontra negli altri: è risposta che genera la sua stessa fecondità, forza centrifuga del suo diffondersi e moltiplicarsi nella creazione e nel cosmo, che nasce dall’ascolto dell’altro attendendo, coinvolgimento, ingenerando dinamiche di corresponsabilità e di partecipazione.

L’obbedienza ‒ come ci ricorda don Lorenzo Milani ‒ non è infatti una virtù se non è generativa e accrescitiva di una responsabilità verso gli altri, verso sé stessi e la propria coscienza. Fuori della coscienza che dice ‘sì’, nella libertà, non c’è aspettativa di vita, né riscatto e liberazione dal male, né vita nell’alleanza. Di contro, la libertà di obbedire, con cui ci si lascia chiamare fuori ‒ come accadde ad Abramo ‒ è un atto di speranza che apre il futuro. È dunque espressione di autonomia che scaturisce dall’eteronomia, da un altro verso cui la mia azione si rivolge e con il quale la mia libertà si mette in gioco, per liberare e liberarsi, per far nascere e rinascere di nuovo, per edificare e lasciarsi costruire.

Scrive Ghislain Lafont ‒ monaco benedettino dell’abbazia della La Pierre-qui-Vire in Francia ‒ che “obbedienza è l’arte di scandire la propria vita sul ritmo di quella degli altri ed eventualmente di rinunciarci affinché gli altri possano vivere” (Monaci e uomini nella chiesa e nella società, Assisi 2016, 154). Così è stata l’obbedienza del Cristo, centro di una libertà completamente estroversa, squarciata ‒ viene da dire pensando al colpo di lancia che ne certificò la morte ‒ una ‘pro-esistenza’ interamente affidata alle mani degli altri. “Imparando l’obbedienza dalle cose che patì”, egli è diventato l’uomo nuovo, il nuovo Adamo, libero e liberatore, dal cui fianco aperto è sgorgata una nuova libertà, che si fa serva per amore.

Ma così come la libertà va sciupata, perduta, se manca l’amore e il rispetto per la propria libertà, parimenti non vi può essere obbedienza vitale o rinuncia generativa senza amore di sé, senza obbedienza prima di tutto alla propria anima, alla propria coscienza. Diversamente essa diventerebbe un gorgo che ingoia la persona, la scompone in tanti pezzi come il vestito di arlecchino e la rende un burattino senz’anima, una bambola di stoffa. Scrive Clarissa Pinkola Estes ne le Donne che corrono coi lupi, Como 1995: “Le condizioni culturali più distruttive in cui una donna possa nascere e vivere, sono quelle che insistono sull’obbedienza senza badare alla propria anima, senza rituali di perdono, che costringono una donna a scegliere tra anima e società, dove la compassione per gli altri è esclusa dalle strutture economiche o dai sistemi di casta, dove il corpo è considerato ‘da purificare’ o come un reliquiario, dove il nuovo, l’insolito o il diverso non generano gioia e dove la curiosità e la creatività sono punite e denigrate invece che premiate, o premiate soltanto se non si è donne, dove azioni dolorose vengono perpetrate sul corpo e dette sacrosante, ovunque una donna sia punita ingiustamente, come sinteticamente dice Alice Miller, ‘per il suo bene’, dove l’anima non viene riconosciuta come essere di diritto”.

Per questo, se chiedessimo ancora a Ghislain Lafont quale sia lo scopo dell’obbedienza egli ci risponderebbe “affermare”, “attestare” la libertà, non negarla. Non sorprende allora che proprio questo suo pensiero, quando era consultore al concilio nel gruppo della redazione del documento Lumen gentium, fu recepito nel paragrafo riservato alla vita religiosa, là dove si dice di quel bene spirituale che è “una libertà corroborata dall’obbedienza” (LG 43). La libertà, invero, lungi dall’annichilirsi nell’obbedienza, ne riceve forza, rendendola capace di attestare, di chiamare a testimonianza la stessa libertà, conferendo ad essa perseveranza e credibilità. Perché il fine della libertà è quello di testimoniare l’amore praticandolo, ‘in persona’. Per questa ragione l’obbedienza è bensì accettazione, ma anche creazione, itinerario e compimento di una libertà amante.

In chiusura riprendo un pensiero del diario di Enzo come un nuovo inizio che invita una nuova partenza: “Pensavo sempre allo stesso problema: vivere il Cristianesimo, tacere, vivere tra uomini vivi, coraggiosamente, semplicemente, sinceramente. Lasciarsi prendere da Lui, per giungere a tutte le conseguenze necessarie. Attenzione all’obbedienza che fa dormire, che ripara, che giustifica: comodi, che chiude nella fortezza. Libertà e Obbedienza nello Spirito: questa è la Legge Nuova. … Rompere ogni relativismo del ‘nostro’ punto di vista per instaurare l’obbedienza radicale, un ‘ascolto’ attento e vigilante del mondo e della storia, una comprensione totale dell’opera di Dio”.

* )  Enzo Demarchi [Trino Vercellese (VC) 1932 – Voghenza (FE) 2001]

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.


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