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«I miei maestri mi insegnavano ad interrogare il testo. Per questo mia madre, quando tornavo a casa, non mi domandava se avevo fatto qualche scoperta interessante, ma se avevo trovato una buona domanda da porre», (Elie Wiesel [Qui], Credere o non credere, Firenze 1986, 43).

Narra il vangelo di Marco che tra i discepoli di Gesù, lungo la via, era nata una discussione su chi fosse tra loro il più grande. Giunti in casa a Cafarnao, Gesù domandò loro di cosa stessero discutendo ed essi rimasero silenziosi. Allora sedutosi li chiamò a sé, pose un bambino in mezzo a loro e disse: «Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti… Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato» (Mc 9, 36-37).

Anche nel vangelo di Matteo troviamo un analogo invito ai discepoli che gli chiedevano, questa volta, chi fosse più grande nel regno dei cieli. E di nuovo Gesù mostra loro i piccoli (parvuli) ammonendoli che «se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli» (Mt 18, 3-4).

E si potrebbe continuare con Luca, che colloca un analogo insegnamento in prossimità dell’ultima cena. I discepoli non erano ancora riusciti a trovare la domanda buona, e Gesù con ancora più pazienza, una pazienza di amore, propone loro un esempio per orientarli di nuovo verso la misura della vera grandezza:

«I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno potere su di esse sono chiamati benefattori. Voi però non fate così; ma chi tra voi è più grande diventi come il più giovane, e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve. (Lc 22, 24-27). «Chi accoglierà questo bambino nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato. Chi infatti è il più piccolo fra tutti voi, questi è grande» (Lc 9, 48).

La domanda buona, quella da fare anche tra i discepoli di oggi, non sarà forse quella di chiedersi “chi sia il più piccolo?”

Questa fu proprio la domanda di frate Francesco, cui egli rispose con tutta la sua vita. Per lui la regola fu il vangelo in purezza – sine glossa – un conformarsi e corrispondere a Cristo povero e crocifisso culminato nelle stigmate alla Verna.

Il suo testamento termina con queste parole: «Ed io, frate Francesco, il più piccolo dei frati, vostro servo, come posso, confermo a voi dentro e fuori questa santissima benedizione. Amen». (FF, Fonti Francescane, 131).

E scrivendo a sorella Chiara dice: «Io Francesco piccolo voglio seguire la vita e la povertà dell’altissimo Signor nostro Gesù Cristo e della sua santissima Madre, e perseverare in essa fino alla fine. E prego voi, mie signore, e vi consiglio che viviate sempre in questa santissima vita e povertà» (FF 140).

Dal più grande al più piccolo: questo l’itinerario di conversione di Francesco, le tappe del suo rimpicciolirsi: il mercante, il cavaliere, il converso, l’eremita, il fondatore di una fraternità evangelica, di una minorità i cui compagni non poterono che prendere coerentemente il nome di “frati minori”.

Anzi, all’inizio si attribuirono il nome di “penitenti”, come disse di sé Francesco nel testamento; ma poi lo stile della “minorità” volontaria fu posto accanto alla scelta della povertà, essendo entrambe generative di quella parola/realtà così cara a Francesco di “fraternità”.

«E quelli che venivano per ricevere questa vita, davano ai poveri tutte quelle cose che potevano avere; ed erano contenti di una sola tonaca rappezzata dentro e fuori, quelli che volevano, del cingolo e delle brache. E non volevamo avere di più. E dicevamo l’ufficio, i chierici come gli altri chierici; i laici dicevano i Pater noster; e assai volentieri rimanevamo nelle chiese. Ed eravamo illetterati e soggetti (minori) a tutti. E io lavoravo con le mie mani e voglio lavorare, e tutti gli altri frati voglio che lavorino di lavoro quale si conviene all’onestà. Il Signore mi rivelò che dicessi questo saluto: Il Signore ti dia pace». (FF 117-121). Così «nessuno sia chiamato priore, ma tutti siano chiamati semplicemente frati minori. E l’uno lavi i piedi all’ altro (Gv 13,14)» (FF 23).

Anche e proprio nella grandezza, Francesco rimase piccolo e umile. È nota la domanda insistente di fra Masseo [Qui] che si legge nei Fioretti «Dimorando una volta santo Francesco nel luogo della Porziuncola con frate Masseo da Marignano, uomo di grande santità, discrezione e grazia nel parlare di Dio, per la qual cosa santo Francesco molto l’amava; uno dì tornando santo Francesco dalla selva e dalla orazione, e sendo allo uscire della selva, il detto frate Masseo volle provare si com’egli fusse umile, e fecieglisi incontra, e quasi proverbiando disse : “Perché a te, perché a te, perché a te?” Santo Francesco risponde: “Che è quello che tu vuoi dire?”. Disse frate Masseo: “Dico, perché a te tutto il mondo viene dirieto, e ogni persona pare che desideri di vederti e d’udirti e d’ubbidirti? Tu non se’ bello uomo del corpo, tu non se’ di grande scienza, tu non se’ nobile; onde dunque a te che tutto il mondo ti venga dietro?”.

Udendo questo santo Francesco, tutto rallegrato in ispirito, rizzando la faccia al cielo, per grande spazio istette collamente levata in Dio; e poi ritornando in sè, s’inginocchiò e rendette laude e grazia a Dio; e poi con grande fervore di spirito si rivolse a frate Masseo e disse: “Vuoi sapere perché a me? vuoi sapere perché a me? vuoi sapere perché a me tutto ‘l mondo mi venga dietro? Questo io ho da quelli occhi dello altissimo Iddio, li quali in ogni luogo contemplano i buoni e li rei: impero ciò che quelli occhi santissimi non hanno veduto fra li peccatori nessuno più vile, nè più insufficiente, nè più grande peccatore di me; e però a fare quell’operazione maravigliosa, la quale egli intende di fare, non ha trovato più vile creatura sopra la terra; e perciò ha eletto me per confondere la nobiltà e la grandigia e la fortezza e bellezza e sapienza del mondo, acciò che si conosca ch’ogni virtù e ogni bene è da lui, e non dalla creatura, e nessuna persona si possa gloriare nel cospetto suo; ma chi si gloria, si glorii nel Signore, a cui è ogni onore e gloria in eterno”» (FF 1838).

Francesco confesserà una volta ai frati di aver ricevuto tra le altre, la grazia della piccolezza: «l’Altissimo mi ha largito questa: obbedirei al novizio entrato nell’Ordine oggi stesso, se fosse mio guardiano, come si trattasse del primo e più attempato dei fratelli. Invero, il suddito non deve considerare nel prelato l’uomo, bensì Colui per amore del quale si sottomette a un uomo. Non ci sarebbe un prelato nel mondo intero, temuto dai sudditi e fratelli suoi quanto il Signore farebbe che io fossi temuto dai miei frati, qualora lo volessi. Ma l’Altissimo mi ha donato questa grazia: sapermi adattare a tutti, come fossi il più piccolo frate nell’Ordine» (FF1666).

Francesco volle che non solo i suoi frati si chiamassero “minori”, ma che gli stessi prelati presenti nel suo ordine avessero il nome di ministri, ovvero servitori, alla stregua degli stessi apostoli che alla scuola di Cristo umile andavano imparando l’umiltà del servire e non del farsi servire:

«Difatti Cristo Gesù, il maestro dell’umiltà, allo scopo di formare i discepoli all’umiltà perfetta, disse: “Chiunque tra voi vorrà essere il maggiore, sia vostro ministro, e chiunque, tra voi, vorrà essere il primo, sarà vostro servo“. I miei frati proprio per questo sono stati chiamati minori, perché non presumano di diventare maggiori (Mt. 20,26)» (FF 1109-1110).

Anche gli ammonimenti di Francesco avevano un’intonazione particolare. Il verbo ad-monere significa ricordare, esortare, richiamare, non usando la forza della coercizione, ma con la sola forza della testimonianza della vita. Pertanto il significato di ‘ammonire’ per lui era un voler richiamare alla memoria dei fratelli la parola di Dio, perché potessero comprenderne le esigenze e trasformarla in vita: le parole di ammonizione avevano così un significato pedagogico-salvifico.

Nella vita seconda di Tommaso da Celano [Qui] (FF 690) viene narrato un episodio molto significativo sul modo di concepire l’ammonizione da parte di Francesco. Il quale interpretava in modo particolare il testo del profeta Ezechiele sulla necessità di ammonire il fratello: testo che veniva allora generalmente interpretato in modo da giustificare l’uso della costrizione e l’imposizione di una disciplina a coloro che operavano inimicizia, discordie, dissidi per obbligarli a ravvedersi anche tramite la forza.

«Mentre Francesco dimorava presso Siena, vi capitò un frate dell’Ordine dei predicatori (domenicani), uomo spirituale e dottore in sacra teologia. Venne dunque a far visita al beato Francesco e si trattennero a lungo insieme, lui e il Santo in dolcissima conversazione sulle parole del Signore.

Poi il maestro lo interrogò su quel detto di Ezechiele (31, 18-20): “Se non manifesterai all’empio la sua empietà, domanderò conto a te della sua anima”. Gli disse: “Io stesso, buon padre, conosco molti ai quali non sempre manifesto la loro empietà, pur sapendo che sono in peccato mortale. Forse che sarà chiesto conto a me delle loro anime?”.

E poiché Francesco si diceva ignorante e perciò degno più di essere da lui istruito, che di rispondere sopra una sentenza della Scrittura, il dottore aggiunse umilmente: “Fratello, anche se ho sentito alcuni dotti esporre questo passo, tuttavia volentieri gradirei a questo riguardo il tuo parere”. “Se la frase va presa in senso generico – rispose Francesco – io la intendo così: Il servo di Dio deve avere in se stesso tale ardore di santità di vita, da rimproverare tutti gli empi con la luce dell’esempio e l’eloquenza della sua condotta. Così, ripeto, lo splendore della sua vita ed il buon odore della sua fama, renderanno manifesta a tutti la loro iniquità”. Il dottore in teologia rimase molto edificato, per questa interpretazione, e mentre se ne partiva, disse ai compagni di Francesco: “Fratelli miei, la teologia di questo uomo, sorretta dalla purezza e dalla contemplazione, vola come aquila. La nostra scienza invece striscia terra terra”».

E stata la lettura di questo testo che mi ha aperto alla comprensione di un versetto del salmo 50(51), 15 che mi era oscuro. Mi domandavo infatti come “insegnerò agli erranti le tue vie”. La risposta semplicissima suggerita da Francesco “percorri tu per primo con la testimonianza della vita le vie di Dio e le farai conoscere agli altri”.

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.


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