Ricevo ancora posta dal Burkina Faso nonostante siano passati ormai più di venti anni dalla mia visita alle missioni dei Fratelli della Sacra Famiglia di Chieri.
È frère Julien Zoungrana, responsabile provinciale della comunità in Africa, che scrive. Le sue lettere iniziano o si concludono sempre con un proverbio del popolo del Burkina Faso, che significa ‘il paese degli uomini retti’.
Nell’ultima lettera in linguaggio morè o mossi era presente un augurio e un compito: Kend n biisdrogem, dove kend sta per ‘camminare’, n per ‘chi’, biisd equivale a ‘fermare, far maturare, crescere, consolidare’, mentre rogm designa ‘parentela, parto, nascita, fraternità’. S’intende così esprimere che solo il movimento dall’uno all’altro, l’uno verso l’altro può consolidare i vincoli di fratellanza.
Insieme al proverbio una fotografia, che raffigura degli uomini che reggono un tetto. Impressionante il simbolismo raffigurato da quella immagine e sottotitolato da un altro porverbio: Aya! aya! n zèkdsugri, che significa ‘È solamente con una sinergia di azione che è possibile ricollocare il tetto di una casa’.
Anche in Burkina − mi scrive frère Julien − è necessario riporre sulla casa comune, con unità di intenti, il tetto della pace:
«Se guardiamo alla situazione attuale nel nostro paese, abbiamo le lacrime agli occhi, quindi sfortunatamente non abbiamo buone notizie. Gli atti terroristici si sono ripetuti in tutto il Paese, così come nei paesi vicini, rendendo la sicurezza precaria. Oltre ai tanti morti che si registrano ogni giorno, l’altra conseguenza di questa guerra asimmetrica è l’aumento del numero dei profughi, che ora supera il numero di 1.800.000.
È davvero triste e rattrista vedere come la violenza rallenti la pace e il processo di sviluppo che da sempre caratterizza il popolo burkinabè… Nelle nostre scuole, dall’inizio dell’anno scolastico, abbiamo accolto molti ragazzi e ragazze provenienti da famiglie povere, in particolare i figli di sfollati interni, ora chiamati rifugiati, nelle nostre scuole affinché possano frequentare regolarmente le lezioni.
Se l’aiuto che riceviamo da voi, cari amici, per il supporto a distanza è sempre utile e prezioso, potete capire quanto sia sempre più difficile far fronte a questa situazione. Quindi, se guardiamo a questo cammino fraterno di solidarietà e condivisione, che ci permettete di intraprendere continuando a garantire la scuola e la mensa quotidiana a tanti studenti, possiamo dire che guardiamo sempre al futuro con speranza.
La stessa speranza che ci permette di andare incontro ai bisogni dei bambini piccoli, spesso malnutriti. Questa speranza si fonda sulla certezza che il Padre Buono che si è fatto bambino, che si è fatto uomo per ciascuno di noi, non lascerà soli i suoi figli, anche là dove la sofferenza e la povertà sembrano avere il sopravvento».
A fissare con più attenzione quell’immagine di mani nascoste che ricollocano sulla casa il tetto, come a dire che insieme portano il peso di far rialzare la pace, mi ha fatto ricordare un corale degli anni ’80 di Marcello Giombini [Qui], che cantavamo nelle nostre liturgie e incontri sulla Parola di Dio.
«È un tetto la mano di Dio è un rifugio la mano di Dio è la pace la mano di Dio».
E così sono andato a cercare un racconto del vangelo di Luca sulle mani di Gesù, che esprimessero le mani di Dio come un tetto:
«C’era là una donna che uno spirito teneva inferma da diciotto anni; era curva e non riusciva in alcun modo a stare diritta. Gesù la vide, la chiamò a sé e le disse: “Donna, sei liberata dalla tua malattia”. Impose le mani su di lei e subito quella si raddrizzò e glorificava Dio.
Ma il capo della sinagoga, sdegnato prese la parola e disse alla folla: “Ci sono sei giorni in cui si deve lavorare; in quelli dunque venite a farvi guarire e non in giorno di sabato”. Il Signore gli replicò: “Ipocriti, non è forse vero che, di sabato, ciascuno di voi slega il suo bue o l’asino dalla mangiatoia, per condurlo ad abbeverarsi? E questa figlia di Abramo, che Satana ha tenuto prigioniera per ben diciotto anni, non doveva essere liberata da questo legame nel giorno di sabato?”.
Quando egli diceva queste cose, tutti i suoi avversari si vergognavano, mentre la folla intera esultava per tutte le meraviglie da lui compiute. Diceva dunque: “A che cosa è simile il regno di Dio, e a che cosa lo posso paragonare? È simile a un granello di senape, che un uomo prese e gettò nel suo giardino; crebbe, divenne un albero e gli uccelli del cielo vennero a fare il nido fra i suoi rami”» (Lc 13,11-19).
Scrutando ancora più in profondità nei miei ricordi è poi emerso anche il simbolo dell’ACHNUR, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, la cui rivista era bene in vista già dagli anni ’90 al Cedoc SFR. Il logo in copertina raffigura due mani che non solo fanno da tetto a una persona, ma formano con il palmo leggermente arcuato l’intera casa.
Così ho pensato che anche le mani dell’uomo sono un tetto per quel Dio umanato che si è sprofondato nell’umano e condivide il destino di chi ha fame e sete, è ignudo, rifugiato, forestiero malato, in carcere: perché dice il vangelo di Matteo 25, che ogni volta che le nostre mani sono state luogo di ospitalità, senza saperlo noi abbiamo ospitato anche lui, che si è impoverito per arricchire noi della sua umanità.
L’ALBERO DEL PALAVER
La parabola dell’alberello di senape mi ha fatto ricordare che in Africa vi è un albero simile − in origine un baobab − «l’albero del palaver [Qui]»; rappresenta il tradizionale luogo di aggregazione, di incontro all’ombra del quale ci si esprime sulla vita sociale e i problemi di interesse comune che riguardano un villaggio. È anche un luogo dove i bambini vengono ad ascoltare le storie di un anziano o si fa scuola. È un punto di dialogo, di riavvicinamento in cui tutti possono esprimersi per ritrovare vie di riconciliazione nella comunità.
«Il palaver africano» (l’arbre à palabre) è una singolare arte di conversazione e dialogo creativo per cercare collettivamente soluzioni pratiche alle sfide e ai conflitti quotidiani nelle relazioni personali, famigliari, comunitarie e intra-comunitarie.
La traduzione palaver (talora anche palaber) mal restituisce il senso di una ricca tradizione ancestrale socio-etica e religiosa propria di diversi gruppi etnici africani, che offre alla comunità strumenti per salvaguardare la giustizia, la pace, la coesione sociale e favorire solide scelte etiche, che promuovano il bene comune e la prosperità umana e cosmica…
Il palaver africano invita tutte le persone, che hanno a cuore la comunità, in uno spazio sacro di dialogo creativo sui modi per promuovere quelle norme etiche che favoriscono un’esistenza piena e combattere quei vizi o atti ingiusti, che pregiudicano la partecipazione di ciascuno al vincolo della vita».
Sotto l’albero del palaver ci si riunisce anche per condividere la Parola di Dio e tutte le parole generative di vita, quelle che suturano e rimarginano le ferite, avvicinano i lontani, l’estraneo, fratello; la parola compresa in tutti i suoi vari aspetti è itinerante, intreccia la periferia al centro e viceversa.
Legame e vincolo tra l’alto e il basso la parola è «come principio vitale in una catena ininterrotta di esistenza che va da Dio e dagli antenati all’umanità e a tutte le creature; come il prosperare, l’essere chi si è destinati a essere; il relazionarsi in modo giusto, partecipando e contribuendo al bene comune e condividendolo – e non si riferisce solo ai vivi (l’assemblea riunita), ma alla comunità, una nozione ampia e complessa che abbraccia anche gli antenati, i non ancora nati, ogni realtà spirituale, le creature visibili e invisibili, la vita ecologica, il pianeta e l’intero cosmo. Tutti e tutte nella comunità hanno qualcosa da offrire al comune vincolo della vita» (Stan Chu Ilo, Il metodo del Palaver africano, Concilium 2021/1, 89 ss.).
Sotto il palaver si sta come sotto un tetto sostenuto da tutti in vario modo; si prende la parola anche danzando, mimando, raccontando storie. Questo albero è diventato così il simbolo della libertà e del diritto di parola nella comunità, luogo di inclusività e di ascolto dell’opinione di ciascuno come decisiva per gli altri.
Nel gruppo etnico Ibo dell’Africa occidentale il palaver costituisce una istituzione egualitaria perché ciò che riguarda tutti deve essere deciso da tutti. Il palaver è così uno spazio di ascolto, «uno spazio di parola veritiera» e, come parola pronunciata nel dialogo, manifesta tutta la sua forza di trasformazione e cambiamento, perché la verità guarisce, unisce e ricostituisce la comunità.
«Nelle comunità tradizionali africane, le profondità, la pluralità e le ramificazioni della verità emergono dall’ascolto paziente e dall’apertura e dall’attenzione alla parola detta – detta in libertà». La dinamica del palaver permetteva di spalancare il cuore e di parlare liberamente, soppesare insieme quei conflitti che rischiavano di minacciare la vita della comunità, ed era generativa di «un’etica del consenso» per salvaguardare, promuovere e proteggere il bene comune.
Come non riconoscere qui un processo sinodale esemplare anche per la chiesa di oggi che ci viene dalla cultura e chiese d’Africa? Non è forse questa la via che papa Francesco ha indicato anche alle nostre comunità che si facciano come l’albero del palaver, luogo comunicativo in ascolto del popolo di Dio sulle questioni di oggi, interpellando i battezzati e tutti coloro a cui sta a cuore la dignità e il destino umani?
Anche l’idea di sinodalità mette in atto un processo di interdipendenza tra le persone nell’ambito del governo ecclesiale. Lo stile sinodale infatti implica il radunarsi assembleare, la partecipazione di tutti al processo deliberativo, la cooperazione nello scambio, il dialogo e l’ascolto reciproco, la collaborazione nella comunione, sotto la presidenza del vescovo. La sinodalità presuppone questo esercizio di corresponsabilità, di un dare e ricevere per arrivare a un consenso della fede.
Del resto, lo stesso termine palaver si avvicina molto presso gli Ibo al concetto di sinodalità. «L’entrare in comunione delle persone unite da un vincolo vitale condiviso»: questa comunione che avviene in molteplici luoghi è generativa, secondo l’espressione di papa Francesco, di una “cultura dell’incontro”. Come l’arte di intrecciare cesti, il palaver esige un’arte della conversazione che intersechi e sia aperta alla diversità di prospettive e tollerante verso le differenze.
“Mai senza l’altro” diviene così il life motiv di ogni esercizio di sinodalità e a me sembra che Clemente Rebora [Qui] l’ha declinato poeticamente: ogni parola è un chicco di una moltitudine di altri chicchi, e si sa come dice un altro proverbio africano di frère Julien:
«Nug bi yend ka wukd zom ye»
(Nug = ‘dito’, bil = ‘piccolo’, yend = ‘da solo’, ka = ‘non’, wugd = ‘raccogli’, zom = ‘farina’, ye = ‘!’)
per dire che “un dito senza le mani non può raccogliere la farina”.
Nihil fere sui.
(‘Nulla si fa senza consultare l’altro’)
Son l’aratro per solcare:
Altri cosparga i semi,
Altri èduchi gli steli,
Altri vagheggi i fiori,
Altri assapori i frutti.
Son la sponda per il mare:
Altri assetti le navi,
Altri spinga le prore,
Altri diriga il viaggio,
Altri tocchi le mete.
Il mio verso è un istrumento
Che vibrò tropp’alto o basso
Nel fermar la prima corda:
Ed altre aspettano ancora.
Il mio canto è un sentimento
Che dal giorno affaticato
Le notturne ore stancò:
E domandava la vita.
Tu, lettor, nel breve suono
Che fa chicco dell’immenso,
Odi il senso del tuo mondo:
E consentire ti giovi.
(Tutte le poesie, 134)
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Cover: i ragazzi della scuola di Baziri (Burkina Faso) e il loro maestro Philips Toè foto di Andrea Zerbini
Nel testo: foto di freire Julien Zoungrana
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Andrea Zerbini
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