«Due strade divergevano in un bosco, e io, io presi la meno percorsa, e questo ha fatto tutta la differenza».
La strofa finale di questa poesia di Robert Lee Frost si adatta perfettamente al cammino percorso dal concilio Vaticano II. Di fronte al bivio che gli si poneva di fronte, una delle prime e fondamentali decisioni prese fu proprio quella di percorrere la via da tempo disattesa: quella, allora meno battuta, del ritorno alle fonti (ressourcement). E l’enorme ‘differenza’ che produsse questa scelta fu la scoperta che quella strada portava a un riavvicinamento (rapprochement) con gli altri cristiani separati, e persino con le altre religioni se non con il mondo moderno. Fu una direzione necessaria intrapresa dal Concilio per avviare un processo di ricongiungimento dentro e fuori la comunità cristiana. Grazie infatti all’immagine di chiesa che usciva dalla riforma liturgica ‒ una chiesa centrata sul mistero pasquale, evangelizzatrice a partire dalla Parola di Dio e dall’eucaristia, culmine e fonte della vita della comunità e una chiesa dei poveri ‒ balzava subito agli occhi la principale missione affidata alla Chiesa: il dono e il compito che le compete di far convergere, di mettere insieme, di riunire attraverso un nuovo stile, celebrante, dialogante, ospitante e attuativo la vocazione battesimale di ogni cristiano, precorritore di nuove relazioni e incontri volti ad avvicinare i rapporti con i fratelli separati, provando a sanare le rotture all’interno della comunità cristiana e tra questa e la modernità.
Rapprochement, ci ha ricordato l’amico Massimo Faggioli «è un termine usato molte volte dal pioniere dell’ecumenismo, il liturgista Lambert Beauduin. Non fa parte del corpus del Vaticano II in modo materiale, ma appartiene pienamente ai propositi del Vaticano II. La riforma liturgica del concilio gioca un ruolo significativo nello sviluppare (durante il Vaticano II) e nel realizzare (dopo il Vaticano II) questo aspetto chiave del concilio, in una direzione che non è meno importante di altre, meglio conosciute come il decreto sull’ecumenismo Unitatis Redintegratio, la dichiarazione Nostra Aetate, e la costituzione pastorale Gaudium et Spes. Il più importante rapprochement portato a termine dal Sacrosanctum concilium consiste in una visione riconciliata della Chiesa, della vita cristiana, della condizione esistenziale della fede nel mondo. Lontana dall’essere un’opzione puramente estetica, il punto di partenza teologico della riforma liturgica puntava a ricreare il rapporto tra liturgia cristiana, necessità spirituali dei fedeli e lettura teologicamente cattolica del mondo moderno nelle sue dimensioni storica e sociale» (Sacrosantum Concilium and the Meaning of Vatican II, in Theological Study, 71, 2, 2010, 767).
Dalla teologia alla poesia il passo può essere breve. Ciò che fa la differenza, scegliendo la via meno battuta, è il dono di uno sguardo poetico, capace di stupore che renda al vivo la figura di questo ricomporre, del mettere insieme, riunire e avvicinarsi. Incontri, sguardi e vissuti come paesaggi, scenari cangianti che connettono insieme prossimità e lontananza, altezza e profondità, risalgono dalla valle alla sommità e da questa ai dirupi scoscesi dei pendii, ricompongono frammenti, immagini, visioni, congiungono desideri, significati, colori, suoni, armonie e dissonanze, le proprie e quelle altrui. Un tale sguardo visto da una prospettiva liturgica diventa pure un vissuto e uno sguardo eucaristici, unitivi della pluralità dispersa.
È la medesima visuale percepita e messa in atto dall’architetto Carlo Bassi nel suo libro Perché Ferrara è bella: dove l’autore, immaginando lo svelamento della nostra città per chi la guarda da sopra l’orizzonte, allude a una prospettiva dalle stelle, zenitale, dal colmo dei tetti. Uno sguardo inedito e nuovo, assunto anche dal poeta Carlo Betocchi: il quale scrive: «tra poco un’altra estate. Me la godo già all’alba di uno di questi ultimi giorni d’Aprile, che si diffonde sui tetti delle case, stando alla finestra».
Betocchi ‒ scrive al riguardo Andrea Zanzotto, «ci chiama a convivere, a collaborare insieme ad esso entro la città umana, sempre messa spalla a spalla con il limite. E si pensi a quei tetti onnipresenti e sempre nuovi, a quei coppi che conservano un’intimità di freschezza e di argilla ancora intrise d’alba, anche quando appaiono più dilavati e forse intaccati dalle stagioni. Coppi, tetti, piani che quasi partono verso ogni lontananza, affratellati, e complementari ad un cielo che pur esso si ricrea di stagione in stagione. Esso sfuma nell’infinito e proprio così richiama il dato, il fatto, ciò che tutto giustifica, unisce, coordina, allena appunto ad una fratellanza» (Carlo Betocchi, Tutte le poesie, Milano 1996, 627-628).
Ho pensato allora, rileggendo queste pagine, che in questo tempo di ripresa conciliare ‒ dovuta all’opera di papa Francesco ‒ nella chiesa ‘si sta come coppi sui tetti presto di mattina’. Insieme oranti. Non si prega infatti nella liturgia delle ore con l’antifona mattutina: «Al sorgere del giorno mi ricordo di te, Signore, al sorgere della luce ascolta o Padre buono la preghiera degli umili»? E il vangelo non va forse predicato sui tetti come ci invitò Gesù stesso: «Quello che vi dico nelle tenebre ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio predicatelo sui tetti» (Mt 10, 27).
Può sembrarci una modalità stravagante. Eppure il vangelo è proprio questo: una guida alla città che proviene dal cielo; un modello di città discesa sulla terra, che vive ‒ per dirla con Calvino ‒ tra le nostre città invisibili, tra le nostre case e piazze e vie; soprattutto tra quelle meno conosciute, poco frequentate le cui prospettive nascondono incontri che sorprendono e ti fanno trovare pensieri e prospettive nuovi.
Rileggendo una pagina di Carlo Bassi sul perché la nostra città è bella sono stato sorpreso di trovarvi sintonie e simboliche a me familiari: ricomporre aggiungendo tessera a tessera, passando da una prospettiva all’altra, di piazza in piazza, di via in via e «da molto in alto fino al limite della visione zenitale» il puzzle della nostra città; e, per me, pagina dopo pagina, incontro dopo incontro ricomporre il vangelo tra la gente. Per trovare il “deposito della storia” ricercato da Carlo Bassi, come pure il tesoro della traditio evangelii, si deve percorrere la strada meno battuta, finanche un tragitto celato e poi restare sorpresi da luoghi sconosciuti, dal dischiudersi di spazi insospettati e ignoti ai più. Ma lo sguardo va allenato alle variazioni. Come le differenti prospettive da cui si guarda un albero ‒ se lo vedi di fronte, dal terzo piano o dai tetti ‒ così le immagini della città si «traslano», scrive ancora Carlo Bassi, mano a mano che essa si scopre al viandante, il quale diventa spettatore e artefice di una trasformazione dello sguardo che muta, mutando le prospettive. Si incontrano così in un primo momento dei luoghi: «riferimenti spaziali distinti e indimenticabili, quando sono esperiti dalla gente e visti all’altezza dell’occhio». Poi, cambiando prospettiva, quegli stessi luoghi diventano «spazi» quando lo sguardo li coglie da un ambito più elevato. E infine ti trovi di fronte a una trasformazione ancora maggiore là dove il campo prospettico della visuale si amplifica «in tracciati geometrici, cioè in elementi misurabili e confrontabili con altri, quando la vista di esse, la piazza e la strada, sia da molto in alto fino al limite della visione zenitale».
«Sembra quasi di poter dire ‒ prosegue Carlo Bassi ‒ che la città come manufatto architettonico, la città nella sua rappresentazione più significativa, come documento estetico da analizzare nelle sue parti rilevanti, la città come opera d’arte da sottoporre ad analisi usando la categoria dello spazio come sua unica chiave di lettura, sia quella, insospettata ai più, che l’occhio vede quando abbia la ventura di raggiungere luoghi inaccessibili come i tetti delle case, o spaziare da terrazze, da oculi di granai, da piattaforme di ascensori, da celle campanarie, da aerei in volo radente. La città offre, da queste quote visive, prospettive del tutto inedite, direi completamente nuove e incontrollabili, di difficile resa anche fotografica, le quali, proprio per questa difficoltà di traduzione in immagini su due dimensioni, ci avvertono che siamo davanti ad un fatto estremamente complesso, che muta ad ogni nostro svariare degli occhi. Esso, infatti, vive in funzione di una infìnità di elementi in perpetuo cambiamento (si pensi solo alla presenza della gente che si muove sulla scena naturalmente creata da quegli ambiti, al variare della luce, al mutare dell’atmosfera, delle stagioni) per cui un fotogramma, colto dall’occhio e fìssato dalla macchina, non sarà mai uguale al successivo. Dai ‘territori superiori’ nei quali ci poniamo, dunque, vediamo una città che pochi vedono, vediamo la fìsicità spaziale di eccezionali riferimenti urbani o di piccoli episodi della minuta trama del suo tessuto vitale».
In questo inizio di scrittura abbiamo solo un colpo d’occhio. Avvicinandosi ai particolari di quest’affresco testuale, lo sguardo è afferrato in un percorso celato, in cui Carlo Bassi a poco a poco svela le ragioni dell’irripetibile bellezza di Ferrara: «che va rivelata perché, per quanto ci è noto, è prerogativa unica di Ferrara, la quale può aggiungere ai suoi percorsi urbani più importanti e significativi questo: segreto e intenso». A me basta questo colpo d’occhio per dire il perché il vangelo è bello.
Nel vangelo si sta come coppi le sere d’estate: insieme pazienti; o nei «solstizi in cui l’anima viaggia per i cieli asciutti chiari per tutti». Nel vangelo si sta come «in un giorno terso come tanti d’estate» dove non c’è burrasca: «non avremo quel fremito che i cupi nuvoloni e le saette ci mettono in cuore». E tuttavia il vangelo è solo primizia del Regno, sua buona novella nella forma di un seme seminato di cui prendersi cura. Non mancheranno giorni e notti difficili in cui gettarci a capofitto, a fare argine ancora all’inquietudine di vincere il male con il bene: «Saremo soli, semmai, nell’azzurro,/ a sentire che dentro il suo profondo/ c’è un cupo, c’è un lontano brontolio:/ che la serenità non è che un lembo/ d’una stagione più incerta;/ in cui, nel fondo, vibra d’inquietudine/ la sorda lotta del bene e del male,/ e spetta a noi gettarci a capofitto/ in mezzo allo spettacolo inondante/ travolti nella sua serenità» (ivi, 190).
Il vangelo è il riconoscersi di Cristo in ogni uomo (P. Mazzolari), celato tra le sue pagine come da uno spartito si ode il canto nuovo poiché, pagina dopo pagina va formandosi la libertà dell’uomo nuovo; questi dice Agostino, sa qual è il canto nuovo, è quello di colui che sa amare la nuova vita. E, così, a me sembra che Il Canto d’estate di Carlo Betocchi sia accordato sulle note del canto nuovo, come risonanze del “suo” vangelo:
“Così, come boccheggiano nel sole
appena nato, sdraiato sui tetti,
ad una ad una, queste bocche d’embrici
rossastre, antiche, dalla schiena calda;
la scorsa primavera andar virenti
le vidi di muschiose fioriture,
nate all’alido; e il sole le riarse,
bevvero guazze, poi le rase il gelo
d’inverno: anch’io, quasi lo stesso,
come un’arida schiena che sopporta
pesi scottanti, geli inveterati,
nell’esistere mio nudo e costrutto
forse a null’altro, spero nel fiorire:
la dolce esclamazione che mi tocca
l’anima, dalle bocche degli embrici
oscure, ripetute lungo la linea
della gronda del tetto, mi sussurra
d’aver pazienza; e l’ombre, la ridicono,
dei coppi sopra i tegoli, scalate
di colore, fantastiche, mutevoli,
la pazienza implorando, poi che il cielo
oggi che è azzurro vive le disegna
a parlare, e dà voce a quelle cose
che non l’hanno, quando il sole declina”.
(Ivi, 178-179).
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Andrea Zerbini
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