Shemà Israel: «Ascolta, [o] Israele! Il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Dt 6,4); «Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore» (Lv 19,17). Sono parole, queste, fatte per resistere nella memoria e fissarsi nel cuore. Ma soprattutto da mettere in pratica come una preghiera da attuare incessantemente nella vita. Parole da tenere appresso quando si cammina, ci si corica e ci si alza; abbracciate alle nostre mani, poste davanti agli occhi, scritte sulle porte di casa e della città, con noi sempre perché le si possa ascoltare e praticare ininterrottamente.
Questo diviene pure l’ascolto di una memoria: la testimonianza di una storia in cui continua ad ardere, come in un roveto che mai si consuma, una promessa di futuro, capace di riscattare il presente perduto. Promessa di una fedeltà per sempre, di un amore che, quando si risveglia, diviene liberazione e riscatto del sangue innocente, proprio là dove ogni speranza pareva vana e il futuro ormai negato per sempre.
Desolazione e lamentazione nazionale, disperazione e invocazione di un popolo oppresso e innocente narra il salmo 44 (43). Il rabbino Abraham Joshua Heschel (1907-1972) ha scritto: «Vi sono momenti in cui non affrontiamo altro che disfatte, in cui la fede non deve sopportare altro che orrori, ciononostante ad onta dell’angoscia e del terrore non siamo mai sopraffatti dall’estremo sgomento. “Anche se Dio volesse schiacciarmi, stendere la mano e sopprimermi! Questo sarebbe il mio conforto, e io gioirei, pur nell’angoscia senza pietà, perché non ho rinnegato i decreti del Santo” (Giobbe 6, 9-10). Nei deserti della disperazione zampillano le sorgenti. È questo l’insegnamento della fede: “Giaci nella polvere e nutriti di fede”» (L’uomo non è solo, Milano 1970, 161). Da questo salmo sale l’antico e costante respiro di dolore degli ebrei, perseguitati in tutti i secoli, ma trae forza, con esso, anche il grido degli oppressi di tutti i tempi: «Tutto questo ci è accaduto e non ti avevamo dimenticato, non avevamo rinnegato la tua alleanza. Non si era vòlto indietro il nostro cuore, i nostri passi non avevano abbandonato il tuo sentiero; ma tu ci hai stritolati in un luogo di sciacalli e ci hai avvolti nell’ombra di morte. Se avessimo dimenticato il nome del nostro Dio e teso le mani verso un dio straniero, forse che Dio non lo avrebbe scoperto, lui che conosce i segreti del cuore? Per te ogni giorno siamo messi a morte, stimati come pecore da macello». Sono pure le parole del salmo 44 recitate nell’ufficio liturgico delle letture del giovedì della II e della IV settimana. E ogni volta che lo si rievoca è impossibile non rimanere nell’animo sgomenti di fronte al respiro soffocato, al dolore delle sorelle e fratelli ebrei; animo che si acquieta un poco solo in quello “Shemà Israel” che sussurro ogni volta in me, tra le parole del salmo a rinnovare l’ascolto profondo, (ob-audio), l’obbedienza alla parola appunto e così avere parte a una fede che nell’ascoltare e praticare non viene meno perché scaturisce, perenne, come da sorgente cristallina, da Abramo nostro padre nella fede.
Shemà Israel. È questo, allora, un invito all’ascolto incessante non solo per Israele ma comune a tutte le religioni bibliche. Ascolto che decentra l’uomo da se stesso, dall’illusione mortale di considerarsi come un assoluto, come un Dio, anzi sostituendosi a Dio. Ricordo un film documentario di Erion Kadilli, del 2010 in cui si racconta la folle vita di un mercenario italiano, dal titolo Sono stato Dio in Bosnia. L’ascolto della memoria impedisce l’evaporazione del passato, il soffocamento nel presente e si riscopre così un’apertura nello spazio dell’altro, come spazio di futuro, la sua storia e il suo destino come legato al tuo, la sua dignità come la tua, voce senza voce, che anche nel silenzio non riesce a asfissiare la domanda: “dov’è tuo fratello?”
Rimanere in ascolto della memoria è allora tornare a respirare: come un seme che buca la terra con lo stelo; appena un filo d’aria, appena. Così le promesse seminate nella terra della memoria ‒ il credere storico di Israele ‒ bucano anche il “presente senza via di fuga”, tornando a respirare nel futuro di Dio.
Quella di Israele è memoria messianica, testimonianza di elezione e di liberazione in una prospettiva di alleanza rivelatasi nella storia di un popolo, ma destinata a irradiarsi, beneficiare e sostenere la speranza di tutti i popoli. La memoria biblica non si chiude nel passato ma è prospettica: non è un ricordare inerte, uno stare a guardare con rimpianto e nostalgia i bei tempi passati; neppure è un ascolto passivo, ma è un fare, di più: un ‘darsi da fare’ per mettere in pratica la parola ascoltata.
Dio stesso si fa e diviene ‘Ascolto’: “ti ascolto Israele”; in ascolto soprattutto del grido degli oppressi, e si dà da fare pure lui in un crescendo di verbi ‘in transito’ nel racconto dell’Esodo che manifesta la sua azione, il suo esserci e farsi ‘compagnia’ del suo popolo afflitto nella storia: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele. “Ecco, il grido degli Israeliti è arrivato fino a me e io stesso ho visto come gli Egiziani li opprimono. Perciò va’! Io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo, gli Israeliti!” Mosè disse a Dio: “Chi sono io per andare dal faraone e far uscire gli Israeliti dall’Egitto?” Rispose: “Io sarò con te”».
La memoria storica del credo d’Israele la troviamo in Dt 26, 11-10: «Mio padre era un arameo errante. Scese in Egitto. Visse là forestiero. Divenne numeroso. Gli Egiziani ci imposero una dura schiavitù. Gridammo a Jhvh, Dio dei nostri padri, e Jhvh ascoltò il nostro grido. Ci condusse fuori dall’Egitto con mano potente e braccio teso e ci diede questa terra dove scorre latte e miele» (Dt 26, 5-10).
«La prima cosa che salta agli occhi – scrive Aldo Bodrato – è che il testo ci presenta l’agire divino come l’intervento di un gohèl, di una potenza parentale protettrice e vindice. La seconda cosa è che tutto ciò non si risolve nella restaurazione dello stato precedente, ma crea una trasformazione inattesa nel destino degli uomini in gioco, li fa passare da figli di un senza patria, da schiavi, a liberi beneficiari di una terra. Li trasforma in un popolo cosciente dei suoi debiti verso il suo Dio e dei propri doveri di ospitalità e di rispetto verso deboli e stranieri. È il tema del Dio liberatore e promotore di una comunità capace di libera equità ed è tema che emerge, come proclamazione di un evento che, meraviglia inaudita, accende una luce nel caos della storia e rende possibile indirizzarla su strade diverse dal puro e semplice affermarsi del brutale dominio della forza. Nega il nome affermando una presenza. Un esserci che non è uno stare, ma un agire e che non si esaurisce in nessun evento presente, passato e futuro, perché è più che essere e che evento. È compagnia».
Per Edith Bruck ogni giorno è giorno della memoria. “La memoria è vita e la scrittura è respiro, è luce pure perché risplende nel buio profondo e insensato dello sterminio”. È per lei come il pane quotidiano, ricorda che l’ultimo gesto di sua madre su quel treno che andava ad Auschwitz fu regalare una fetta di pane a una donna che allattava un neonato. In un’intervista afferma: “Per me il credo è non fare distinzione tra esseri umani e, credere è pure un grandissimo impegno civile”. Il suo recente libro, Il pane perduto (Milano 2021), si chiude con una preghiera: «Oh, Tu, Grande Silenzio, se Tu sapessi delle mie paure, di tutto ma non di Te. Se sono sopravvissuta, avrà un senso. No? Ti prego, per la prima volta ti chiedo qualcosa: la memoria, che è il mio pane quotidiano, per me infedele fedele, non lasciarmi nel buio, ho ancora da illuminare qualche coscienza giovane nelle scuole e nelle aule universitarie dove in veste di testimone racconto la mia esperienza da una vita. Dove le domande più frequenti sono tre: se credo in Te, se perdono il Male e se odio i miei aguzzini. Alla prima domanda arrossisco come se mi chiedessero di denudarmi, alla seconda spiego che un ebreo può perdonare solo per se stesso, ma non ne sono capace perché penso agli altri annientati che non perdonerebbero me. Solo alla terza ho una risposta certa: pietà sì, verso chiunque, odio mai, per cui sono salva, orfana, libera e per questo Ti ringrazio, nella Bibbia Hashem, (Il Nome) nella preghiera Adonai (Il Signore), nel quotidiano Dio».
Questa compagnia della memoria mi ha fatto ricordare un racconto rabbinico che, insegnando l’atteggiamento con cui dire il credo, mi ha aiutato a recitare con serenità il salmo 131, composto da parole che ‒ un tempo ‒ non proferivo con scioltezza, ripetendole balbettante senza autentica verità, come potevo asserire con certezza: «Signore, non si esalta il mio cuore, né i miei occhi guardano in alto; non vado cercando cose grandi né meraviglie più alte di me». Si narra che «Rabbi Noè udì un giorno dalla sua camera uno dei suoi discepoli che nella scuola attigua cominciava a recitare gli articoli di fede, ma poi, subito dopo le parole “Io credo in perfetta fede”, s’interrompeva e sussurrava a se stesso: “Non lo capisco” e di nuovo: “Non lo capisco”. Lo zaddik uscì dalla sua stanza e entrò nella scuola. “Che cos’è che tu non capisci?” domandò. “Non capisco come può essere” rispose il discepolo, “Io dico: credo. Se credo veramente, com’è che io pecco? Ma se io non credo veramente, perché allora dico una bugia?”. “Si dice, gli rispose Rabbi Noè, che le parole ‘io credo’ siano una preghiera. ‘Che io possa credere’, ‘fa che io creda’ ecco che significa”. Il chassid s’accese. “Così va bene, esclamò, così va bene! Ch’io possa credere, Signore del mondo, ch’io possa credere!». Da quella volta, anch’io discepolo della parola, mi accendo e tutte le volte che giunge il salmo della speranza di Israele dico: «Signore ‘fa’ che non si inorgoglisca il mio cuore, ‘fa’ che non si levi con superbia il mio sguardo, ‘fa’ che non vada in cerca di cose grandi, superiori alle mie forze; fiducioso come bimbo svezzato, portato da sua madre possa pure io, un poco, portare il dolore del fratello su di me. Speri Israele nel Signore».
Anche ne Il libro di tutti i libri di Roberto Calasso, come in quello di Edith Bruck troviamo riportata in chiusura una preghiera, quella detta Gevurot (Potenze), la seconda delle diciotto benedizioni: «Tu che fai rivivere i morti». Stando in piedi, ripetuta per tre volte al giorno e quattro il sabato, benedice Dio così: «Tu sei potente in eterno, Signore che risusciti i morti, che sei grande nel concedere salvezza che fai spirare il vento e fai scendere la pioggia. Egli nutre i viventi per grazia, fa risorgere i morti con grande misericordia, sostiene i cadenti, guarisce i malati, libera i prigionieri e mantiene la sua fedele promessa a chi dorme nella polvere. Chi come Te, o Potente? Chi Ti assomiglia, o Re che fa morire e risorgere, che fa sbocciare per noi la salvezza? Tu sei fedele nel far risorgere i morti».
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Andrea Zerbini
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