«Volevi essere scrittrice. Volevi scrivere? Che cos’era in te/ che doveva raccontare la propria storia?/ La storia che deve essere raccontata/ è il Dio dello scrittore, un Dio che ordina/ da dentro il sonno, con voce silenziosa: “Scrivi”». Così Ted Hughes [Qui], in un testo poetico tratto da Lettere di compleanno, nel quale ricorda la moglie poetessa e scrittrice Sylvia Plath,[Qui] il loro legame tormentato, finito in modo tragico.
“Si scrive per vivere e si vive per scrivere”, ho pensato leggendo l’introduzione di Nicola Gardini a Poesie, nei Meridiani Mondadori: «La scrittura, per Hughes, era conseguenza diretta del fatto di vivere, era il vivere stesso e si nutriva di questo. Era un dono. Bastava accettarlo. Nel caso dei poeti ‘alla Plath’, invece, alla scrittura tocca il duro compito di mandare avanti una vita, tra pene e difficoltà che non saranno mai completamente dette, non ricompenseranno mai lo sforzo dell’ispirazione».
Scriveva per vivere la Plath. Ha vissuto per scrivere Hughes. Egli riconosceva ‘scrittura’ in ogni cosa; trascriveva ogni pensiero suscitato ovunque, in ogni incontro, nei luoghi, nei fatti, nei gesti. Di più: «Tutti; per Hughes, scrivono. Scrive la volpe zampettando sulla neve, scrivono i moscerini sull’aria, scrivono le cime dei rami … Il mondo intero è ricoperto di segni, di ‘print‘. E lo spazio è percorso, suddiviso, ordinato da reti (webs, nets), maglie (meshes), linee, viottoli, muretti; crinali e orizzonti – quanti orizzonti! – entro cui si dispongono e delimitano a vicenda cose ed esseri viventi; come geroglifici su un immenso foglio: il piano del Reale che si incastra in quello del Simbolico (il linguaggio), come direbbe Lacan», (ivi, XIII).
Con lo scrivere si intravede una lontananza da percorrere, inizia una itineranza vigile e faticosa, scrutatrice nell’oscurità, in un tempo come sospeso, in attesa che arrivi l’intuizione, il venire alla luce, come occhi chiari spuntare dal buio, il nascere di parole interiori che grazie alla scrittura otterranno una nuova potenza comunicativa, come il passare dalla solitudine silente dell’orologio al suo ticchettio: il guadagno di una nuova pagina pronta.
Nella poesia La volpe pensiero viene descritto l’incipit di questa itineranza: «Immagino la foresta di questo momento di mezzanotte:/ qualcos’altro è vivo/ oltre la solitudine dell’orologio/ e questa pagina bianca dove si muovono le mie dita./ Attraverso la finestra non vedo stelle:/ qualcosa di più vicino/ seppure più affondato nel buio/ sta penetrando la solitudine:/ freddo, delicatamente come la neve scura,/ il naso di una volpe tocca fronde, foglie;/ due occhi servono un movimento che ora/ e ancora e ancora e di nuovo/ lascia nitide impronte nella neve/ tra gli alberi, e con cautela l’ombra/ zoppa indugia vicino ai ceppi e dentro buche/ di un corpo che ha l’ardire di avanzare/ attraverso radure, un occhio,/ un verde che cresce in intensità,/ brillante e concentrato,/che se ne viene per le sue faccende/ finché di colpo con acuto e caldo puzzo di volpe/ non entra nel buco scuro della testa./ La finestra è ancora senza stelle; 1’orologio ticchetta,/ la pagina è pronta», (ivi, 11-13).
“Scrivi!” è pure il comando del Dio dell’alleanza che con Mosè e i profeti ha voluto aprire al Sinai una “scuola di scrittura” per il suo popolo, affinché imparassero a leggere e a scrivere, così che tutti potessero conoscerlo e conoscersi tra loro, dal più piccolo al più grande, senza la mediazione di troppi maestri e in quella intimità profondissima e silente che unisce il Maestro interiore al discepolo – direbbe Agostino – in quell’intreccio degli affetti che lega colui che ha scritto un testo ad ogni suo lettore presente e futuro: «Il Signore disse a Mosè: “Scrivi queste parole, perché sulla base di queste parole io ho stabilito un’alleanza con te e con Israele», (Es 34,27).
Di più. È proprio Lui che si mette a scrivere e si rivela, nascondendosi nelle scritture. Lui che leggendo i desideri, i moti, l’alfabeto, le lettere secretate nel cuore umano, vi corrisponde, scrivendo su tavole di pietra: «Il Signore disse a Mosè: “Sali verso di me sul monte e rimani lassù: io ti darò le tavole di pietra, la legge e i comandamenti che io ho scritto per istruirli”. Le tavole erano opera di Dio, la scrittura era scrittura di Dio, scolpita sulle tavole», (Es 24, 12; 32, 16).
Egli scrisse quelle parole perché si restasse liberi – un codice per la libertà – e si continuasse a perseguire la nostra incompiuta nascita all’amore, cammino verso una terra promessa, una liberazione per comunanza di vita condivisa nella forma di un popolo peregrinante verso la sua meta: «Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele» (Es 3, 8).
Ma come gli fu facile scrivere su tavole di pietra, così altrettanto impegnativa e tremendamente ardua fu invece lo scrivere e riscrivere per quarant’anni sulle tavole di carne dei cuori umani. Una conquista a caro prezzo, anche per gli anni a seguire, a prezzo della trafittura del cuore, delle mani, dei piedi, del capo: il prezzo di una vita. Ma “nada te turbe nada te spante” direbbe Teresa d’Avila.
A tutt’oggi sembra ch’Egli non abbia ancora rinunciato alla vincolante, rischiosa e ardimentosa, amorosa promessa fatta a Geremia: «Questa sarà l’alleanza che concluderò con loro dopo quei giorni porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: “Conoscete il Signore”, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande» (Ger 31, 33-34).
Gesù ha scritto con il dito sulla sabbia una sola volta. Ha scritto ciò che passa non appena giunge il vento, perché ciò che è perdonato scompare, per sempre. Quello che gli stava più a cuore invece, il mistero di Dio racchiuso nella sua umanità, l’esperienza della compassione provata dal Padre per i suoi figli, e la sua per i suoi fratelli, questa l’ha scritta con la sua intera esistenza.
Un maestro che insegnava con autorità, perché scriveva con la sua vita per generarla in quelli che incontrava per la strada, con la parola, i segni e l’effusione del suo spirito. «Bisogna nascere di nuovo» diceva a Nicodemo un maestro in Israele, anche se si è vecchi: «Non ti meravigliare se ti ho detto: “Bisogna che nasciate di nuovo”. Non meravigliarti se ti ho detto: “Dovete nascere dall’alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito“» (Gv 3,7).
Quel comandamento nuovo Gesù lo scriveva strada facendo, al vivo sulla sua pelle, con una scrittura carnale, con mani e piedi di uomo, con cuore di carne, con lo sguardo degli occhi penetranti l’abisso, anche quello più oscuro; con il respiro e l’udito di chi non spezza una canna incrinata né spegne un lume fumigante; con la voce di chi dice “alzati e cammina”, o “donna non piangere” e, senza sottrarsi alla morte, nell’ultima cena condividendo il suo stesso corpo, dato come un pane ai discepoli: «prendete e mangiatene tutti», e così si continuerà a dire nei secoli dei secoli.
“Volete andarvene anche voi?” chiese il Rabbi una volta ai suoi. Rispose Pietro per tutti: «da chi andremo Signore», solo le tue parole, viventi scritture, restano impresse in modo indelebile sulle pagine di quel libro che è la nostra vita.
La scrittura di Marco, ispirata da Pietro, che lo chiama figlio e lo arruola nei suoi viaggi missionari come suo interprete a Roma, è come “lo stilo di uno scriba veloce”. Egli scrive il suo vangelo srotolandolo in appena 16 capitoli, come su una pergamena che mostra il testo e lo nasconde nello spazio breve di aprirsi e avvolgersi di nuovo. Rivela così, facendo intravedere solo un poco e poi rimandando al dopo, il segreto più intimo di Gesù, il suo essere il messia e il figlio di Dio.
Luca, il caro medico lo chiama Paolo e suo “compagno di lavoro”. È lo scriba meticoloso che ha compiuto prima di cimentarsi nell’impresa «ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi per scriverne un resoconto ordinato». È lo scriba della mansuetudine di Cristo, e pure il redattore e poi cronista, sul campo degli Atti degli Apostoli, della vita nascente, delle vicende e del cammino in diaspora della nuova famiglia di Gesù, prima e dopo la Pasqua. Scriba della missione Spirito, il compagno consolatore che suggerisce le parole da dire davanti ai tribunali e sospinge i discepoli fuori dai luoghi chiusi, sempre oltre fino alle periferie della terra.
Paolo, lo scriba di Cristo, che dice di essere «l‘infimo degli apostoli, e non degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio», dopo essere stato afferrato da Cristo ha dettato molte lettere, firmandole anche di suo pugno, lettere alle comunità che aveva fondato; egli scrive perché «leggendo ciò che ho scritto, potete rendervi conto della comprensione che io ho del mistero di Cristo» (Ef 3,4), e ricorda anche ai faticosi e amati cristiani di Corinto che: «La nostra lettera siete voi, lettera scritta nei nostri cuori, conosciuta e letta da tutti gli uomini. È noto infatti che voi siete una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei vostri cuori», (2 Cor 3,2-3).
Ma è Giovanni, il discepolo caro a Gesù, il presbitero che scrive alle chiese, quello accolto da Maria come figlio sotto la croce, e che la prese con sè come madre ad Efeso: è Giovanni lo scriba del “mistero indicibile di Dio”, del suo Verbo fatto carne, presente come luce nelle tenebre nelle vicende umane; narratore del futuro di Dio nascosto tra le pieghe minacciose della storia umana quando giungerà a compimento.
È chiamato dalla tradizione “l’aquila di Dio”. Si credeva un tempo che l’aquila potesse rinnovare la sua giovinezza e rinascere immergendosi in una sorgente d’acqua purissima, e così i suoi occhi divenuti trasparenti, innocenti alla luce, potessero fissare con lo sguardo il sole senza restarne abbagliati. È Giovanni il teologo che, reso trasparente al mistero dell’amore del Padre fonte del primo amore, perché tutto immerso in lui, scrive ciò che ha visto in visione nelle lettere alle sette chiese nel libro dell’Apocalisse: «Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando su di me la sua destra, disse: “Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Scrivi dunque le cose che hai visto, quelle presenti e quelle che devono accadere in seguito”», (Ap 1, 17-19).
In una prima lettera che inviò alla sua comunità in diaspora si legge che scriveva loro perché fossero consapevoli di possedere la vita e la comunione in Dio per la fede nel suo Figlio e per lo stile di comunione fraterna tra di loro. Balza subito agli occhi, nella lettera, l’insistenza delle ripetizioni, quasi che volesse scrivere ad uno ad uno dei suoi lettori e al tempo stesso abbracciarli tutti: «Scrivo a voi figlioli… scrivo a voi padri… scrivo a voi giovani… Ho scritto a voi… ho scritto a voi… ho scritto a voi».
Le tre età stanno a indicare la totalità dei destinatari: «Carissimi, non vi scrivo un nuovo comandamento, ma un comandamento antico, che avete ricevuto fin da principio. Il comandamento antico è la parola che avete udito. E tuttavia è un comandamento nuovo quello di cui vi scrivo, il che è vero in Cristo e in voi», (1Gv 2, 7). «Dio è amore», ecco il comandamento sempre nuovo e sempre antico; in questo semplicissimo detto giovanneo troviamo ricapitolato tutto il suo vangelo come fosse una miniatura.
Oso sbilanciarmi e dire allora che forse scrivere per Giovanni ha significato nascere e far rinascere dallo Spirito. Credo proprio di sì. Un continuo invito a passare dall’oscurità alla chiarezza, dal disamore all’amore, come il venire alla luce dell’aurora. Di più: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). Scrivere è un venire sempre di più alla luce per ricevere la vita in abbondanza quella simboleggiata dall’immagine del Regno: «se uno non rinasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio» (Gv 3,3).
Ma se si rinasce è come dire vedere nel groviglio oscuro, deterministico del destino umano illuminarsi un segreto, generarsi una pienezza di umanità, di relazioni in libertà, di una intimità di amore protesa all’infinito, oltre «la siepe, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude». Ciò che si è visto e non può essere detto lo si può scrivere, perché scrivendo si salvano le parole “in-audite” facendole nascere nel corpo della scrittura.
È Maria Zambrano [Qui] che ha ricentrato tutto il suo pensiero, e non un aspetto solo, sulla nascita e non più sulla morte. Il suo pensiero ha determinato così l’inversione di un paradigma dominante della filosofia esistenzialista e non solo. ‘Essere’ è per Maria Zambrano un ‘essere-per-la-nascita’, un nascere che porta l’uomo a un «risveglio dell’intimo fondo della persona», lo porta ad essere persona.
Una continua itineranza: dall’ ‘essere-per-la morte’ verso ‘un-essere-per-la-luce’. (Cf S. Zucal, Filosofia della nascita, Brescia 2017, 431- 507). Nel suo libro Verso un sapere dell’anima (Milano 1991), in cui scrive delle due forme del sapere filosofico, quello di ragione e quello poetico, per ritrovare nella vita l’amicizia perduta di un pensiero non solo teorico ma esistenziale e politico, la Zambrano scrive un intero capitolo sul Perché si scrive?
«[Per] salvare le parole dalla loro vanità, dalla loro vacuità, dando loro consistenza, forgiandole durevolmente, è lo scopo che persegue, anche senza saperlo chi scrive davvero». Scrivere è l’esercizio «di una potenza di comunicazione», una grazia, a chi scrive, perché si «accresca la sua umanità, che porti l’umanità dell’uomo a limiti appena scoperti, ai limiti del valore umano, dell’essere umano, con l’inumano, ai quali lo scrittore giunge, vincendo nel suo glorioso incontro di riconciliazione con le parole tante volte traditrici».
«Salvare le parole dalla loro esistenza momentanea, transitoria, e condurle nella nostra riconciliazione verso ciò che è durevole, è il compito di chi scrive. Ma le parole dicono qualcosa. Che cosa vuol dire lo scrittore e a quale scopo? Perché e per chi? Vuole dire il segreto, ciò che non si può dire a voce perché troppo vero; le grandi verità non si è soliti dirle parlando. La verità di ciò che accade nel seno nascosto del tempo è il silenzio delle vite, e che non può essere detto. “Ci sono cose che non si possono dire“, ed è in dubitabile. Ma è proprio ciò che non si può dire che bisogna scrivere. Scoprire il segreto e comunicarlo sono i due stimoli che muovono lo scrittore. Allo scrittore nella sua solitudine il segreto si rivela non del tutto, ma in un divenire progressivo. Scopre a poco a poco il segreto nell’aria e sente il bisogno di fissare il suo tracciato per poter poi alla fine abbracciare la totalità della sua figura… »
«Lo scrittore scaglia fuori di sé, dal suo mondo e quindi dall’ambiente che può controllare, il segreto trovato. Non sa che effetto produrrà a seguito della sua rivelazione, né può dominarlo con la sua volontà. Perciò è un atto di fede. Puro atto di fede è lo scrivere e ancor di più, perché il segreto rivelato non smette di essere tale per chi lo comunica scrivendolo… »
«È un atto di fede lo scrivere, e come ogni fede, di fedeltà. Lo scrivere richiede fedeltà prima di ogni altra cosa: essere fedeli a ciò che chiede di essere tratto fuori dal silenzio… Chi scrive, mentre lo fa, deve far tacere le proprie passioni e, soprattutto, la sua vanità. La vanità è una gonfiatura di qualcosa che non è riuscita a essere e si gonfia per coprire il suo vuoto interiore. … »
«La fedeltà crea in chi la rispetta la solidità, l’integrità del suo stesso essere. La fedeltà esclude la vanità, che consiste nell’appoggiarsi su ciò che non è, su ciò che non è verità», (ivi, 23-32).
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Andrea Zerbini
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