Risonanze di vangelo, parole antiche e sempre nuove, sono per me le poesie di Carlo Betocchi. Il suo è un vangelo vissuto a caro prezzo nel quotidiano; una scrittura incisa nel corpo delle cose, ferita per liberare il soffio d’anima prigioniero in esse. Ma al tempo stesso una scrittura seminata nel tempo ‒ «un passo, un altro passo» ‒ per ritrovare «tracce mutili», frammenti di senso dentro al muto silenzio del quotidiano. Eppure «col suo silenzio/ la mia anima benda le sue ferite./ E crede, infinitamente crede/ al mutamento. E vi scivola/ dentro. Tutto è compiuto/ e tutto è da compire./ Nel mio silenzio» (Tutte le poesie, Milano 1996, 578). Un vangelo compiuto e tutto da compiere ‒ dunque ‒ scevro da compromessi, spoglio da sicurezze, senza difese, né privilegi. Un vangelo al vivo, che rincuora la vita.
Quella di Betocchi è una fede che si consegna in abbandono all’altro che gli viene incontro; scaturita da ferita d’io che guarisce facendosi umiltà d’amore. Solo così ci si può convincere che la stoltezza del vangelo è più sapiente degli uomini e la debolezza del vangelo è più forte della forza degli uomini (1 Cor 1,25): «A me la fede/ non consente che un grido ed una voce:/ è quel poco che so, che sento vero/ dentro di me: ed in quel vero accendo/ l’essere a farsi un uomo che cammina/ solo e con tutti, innanzi a sé pregando» (Ivi, 545).
In particolare, una poesia di Carlo Betocchi mi accompagna da tanti anni, invitandomi all’umiltà d’amore. È un testo generativo di uno stile e di una pratica pastorali, che fanno partire alla ricerca del vangelo celato in qualunque frammento del creato, pure nel sasso, nell’albero, nel fuoco, nella sorgente in un fiato d’aria. Un vangelo tra la gente; un vangelo di vangeli, fuori dai recinti di coloro che si ritengono giusti. Presente pure nelle strade dove tendono agguati i briganti, ma percorse anche dal samaritano della parabola evangelica che, a motivo di quella debolezza forte e di quella stoltezza sapiente che promanano dalla compassione, non passa oltre, restando con l’altro, praticando così lo stesso operare di Dio nel rivelarsi a Mosè: “dì loro che io sono [l’altro], colui che sono accanto, che mi faccio prossimo a voi”.
Eccola: «No, non temere mai nulla da Dio… Non temere il Signore Dio tuo. Ha detto: “Io sono quello che sono”/ e tu non temere mai nulla: poiché,/ se tu credi, non sarà tua l’esistenza,/ ma sua: né sarà mai protetta, tuttavia,/come tu speri e credi: anzi, gettata/ nelle fosse. Chi crede in Dio/ si appresti ad essere l’ultimo/ dei salvati, ma sulla croce, ed a bere/ tutta l’amarezza dell’abbandono./Poiché Dio è quello che è.
Ma si è già nel Vangelo quando/ non se ne può più uscire:/ e vi si è ancora quando,/ stanati dalle mura della sua Chiesa/ per impossibilità di restarvi,/ allora il Vangelo ci insegue/ come il veltro la preda agognata./ Fra te e la salvezza non/ altre vie che quelle segnate/ dal Vangelo; ma in quelle che vedi/ vanno, fra sciami d’innocenti,/ turbe d’ignavi e d’ipocriti./ E dunque fra te e il Vangelo /non c’è che il nasconderti/ dentro e sotto di lui come gramigna/ nel suolo, a far speco terroso/ in cui si realizza, come si può,/ quel che non esiste che nei fatti:/ qui in terra, e nella carità» (Ivi, 459-461).
Mario Luzi, in un’intervista (Biblia Notiziario 1996), ricordava che quel piccolo demiurgo che è un poeta, quando si accosta al vangelo, lo fa non tanto per la potenza e l’autorità di quella Parola, ma semmai, seguendo la singolarità che gli è propria, quella di smascherare le false parole, di scoperchiare quelle che, come sepolcri imbiancati appaiono all’esterno belle all’udirsi, ma dentro sono parole morte. E tuttavia quelle del poeta sono parole vere perché testimoniano non tanto il Creatore e il Padre nostro che è nei cieli, ma la sua creatura. In tutti i casi, in comune tra loro, la parola del vangelo e quella del poeta hanno l’amore per l’uomo. Talché il poeta, udendo la parola di Dio, ne coglie gli echi profondi e le risonanza che essa tesse con i silenzi degli uomini nel loro umano interrogare. «Il Vangelo – scrive Mario Luzi – è poesia esso stesso, nel senso di poiesis che crea l’esigenza di pensieri, crea pensieri nuovi, esalta l’esistente e l’assente nello stesso tempo. Fa sentire così vivo il mondo, così drammatico».
Ne La poetica dello spazio, Gaston Bachelard, per esprimere gli echi profondi generati nel lettore da un testo poetico, usa una parola francese intrigante: retentissement, da rententir, riempire di un suono forte o di un brusio, come refoli di vento a intervalli costanti in uno spazio che si dilata sempre più. Retentissement deriva dal latino tinnere, tintinnare, risuonare di suoni brevi o allungati, fievoli o rimbombanti; a volte è un bisbigliare da un orecchio all’altro, altre come un’ola nello stadio; un farsi intendere ripetutamente come un’eco, nello stesso perdurare di un’azione come l’andirivieni delle onde nel mare, l’espandersi di odori e profumi o il diffondersi di canti gioiosi, o di lamenti; rumori di officina, pesanti grida o il vagito di un neonato.
Retentissement possiede dunque una ricchezza semantica che non si coglie nella sua traduzione italiana con ‘risonanza’. Teniamo quindi a mente nel leggere quanto osservava al riguardo Bachelard: «Le risonanze si disperdono sui differenti piani della nostra vita nel mondo, il retentissement ci invita ad un approfondimento della nostra esistenza. Nella ‘risonanza’ non facciamo che intendere la poesia, nel retentissement la parliamo, è nostra. Il retentissement opera un cambiamento d’essere: l’essere del poeta sembra diventare il nostro… L’esuberanza è la profonda ricchezza di una poesia sono sempre fenomeni del doppione ‘risonanza-retentissement’: la poesia pare ridestare in noi echi profondi in virtù della sua esuberanza». Questo determina come un risveglio nel lettore, un divenire che lo trasforma: «La immagine che la lettura del poema ci offre, eccola diventare veramente nostra: essa si radica in noi stessi, e, sebbene noi non abbiamo fatto che accoglierla, nasciamo all’impressione che avremmo potuto crearla noi, che avremmo dovuto crearla noi. Essa diventa un essere nuovo del nostro linguaggio, ci esprime facendoci diventare quanto essa esprime, o, in altre parole, essa è al tempo stesso un divenire espressivo ed un divenire del nostro essere», (ivi, 12-13). Così il retentissement costituisce quel fenomeno che fa percepire al lettore ciò che il poeta ha scritto come fosse il proprio dire; lo fa cosciente che in lui abita la capacità linguistica ed espressiva dimorante nel poeta.
Nella traduzione francese della Bibbia ho trovato diverse ricorrenze testuali del nostro termine. In particolare, mi sono soffermato sul Salmo 19, che amplifica e diffonde le risonanze e le voci della creazione che narrano l’opera ‒ poetica anch’essa vien da dire ‒ uscita dalle mani di Dio. Il ritmo è incalzante, crescente, uno sparpagliarsi di suoni. Dai cieli si avvia la narrazione e, come una cascata, risuona sulla terra attraverso il distendersi dei giorni e delle notti, che traghettano nel tempo e lungo la storia quanto hanno udito e ricevuto. Le notizie trasmesse non sono discorsi chiaramente udibili e afferrabili, ma nell’intero spazio terrestre è ‘uscito il loro suono, se ne diffonde la voce’, tanto che fin all’estremità della terra ‘risuona‘ la parola: «Leur retentissement parcourt toute la terre. Leurs accents vont aux extrémités du monde».
In questo ‘passa-parola’ di trasmissione e di recezione della vita, la creazione continua a muoversi, a ricrearsi, come quando in uno stagno d’acqua ferma si gettano sassi, che creano risonanze ondose a forma di cerchi, che vieppiù si espandono ingrandendosi. E incrociando il movimento ondoso provocato dagli altri sassi, essi creano trasformazioni e nuove armonie figurative rispetto alla forma iniziale. I cerchi che vengono così attraversati dalle onde degli altri ne sperimentano le risonanze come fossero le proprie, e forse qui, simbolicamente, ci viene rappresentato il fenomeno ricordato da Gaston Bachelard, che porta il lettore a sentirsi come il poeta, a percepire, almeno un poco, il testo come appartenente anche a lui.
La ricezione di un testo «è la capacità di fare azione, di fare passi incontro, anche quando il movimento sembra partire da altri, come i cerchi nell’acqua, non è ripetizione ma direi intensità nell’azione con cui anche chi riceve prende parte attiva nel far sua la cosa che riceve» (Luigi Sartori).
Padre Marcello dopo ogni colloquio o confessione diceva sempre a chi aveva di fronte: «avanti, avanti». Il mio congedo è simile: «un altro passo». Espressione che rivolgo spesso anche a me stesso la mattina, o quando sto per iniziare qualcosa di impegnativo o faticoso. Non fu allora solo meraviglia quella volta che, saltando qua e là tra le pagine dell’opera poetica di Carlo Betocchi, trovai il titolo di un testo che corrispondeva esattamente al mio quotidiano dire la speranza: Un passo, un altro passo
“Un passo, un altro passo,
ivi del cielo il masso
azzurro, la vivente natura,
e l’inferma pietà
che se stessa conosce negli errori,
e la lieve follia, ivi la morte,
il rumore e il silenzio,
e il mio esistere anonimo;
e come dalla pietra sale il canto
di un colore che è muto,
un passo, un altro passo,
e inciampicando nel divino esistere
io giungo a riconoscermi nel sasso
che sospira all’eterno, in alto, in basso.”
(ivi, 286).
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Andrea Zerbini
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