Matuška, Maria, la “piccola madre” dormiente è assunta presso il Figlio; lei che lo aveva fatto nascere sulla terra, ora da lui è fatta nascere alla sua vita risorta. Domani, 15 agosto si ricorderà la Pasqua di Maria. Stamattina ancora dorme nel sonno della morte, nel silenzio del suo sabato; come quel sabato santo in cui, nel sepolcro fuori la città santa, si riposò suo figlio deposto dalla croce.
Nelle icone orientali della Dormitio sono rappresentati due spazi distinti che sembrano sfumare l’uno nell’altro, come una sola immagine: quello terreno della morte di Maria circondata dagli apostoli, dalla gente che piange intorno al suo corpo come dormiente, e quello celeste, mistico della presenza di Cristo davanti a lei, circondato da angeli, che tiene nelle mani un neonato fasciato di vesti splendenti di colore bianco come la neve, a simboleggiare l’anima della Madre accolta tra le braccia del Figlio.
Nella santa liturgia delle chiese orientali in questo giorno si canta: «La Sua morte promette la vita. Lei, che ha dato alla luce la vita, è stata trasportata alla vita» per questo la sua morte è chiamata ‘Dormizione immortale’ (Athánatos Koimesis).
Il 1° maggio 1946 un plebiscito unanime si sollevò nella chiesa cattolica da parte dei vescovi e dei fedeli, quando il papa Pio XII volle consultare il popolo cristiano sulla opportunità di definire solennemente l’assunzione di Maria in anima e corpo.
Lo stile sinodale che nella chiesa di oggi è invocato, auspicato, proposto da papa Francesco alle nostre chiese e comunità, perché ci sia riforma missionaria e nuovo stile nelle relazioni ecclesiali – una pratica sinodale capace di generare creatività e ampi consensi nelle decisioni sulle questioni che riguardano tutti i battezzati – ebbe allora una risposta concorde.
Fu «una pia gara – scrisse allora il papa – i fedeli furono mirabilmente uniti coi loro pastori, i quali in numero veramente imponente rivolsero simili petizioni. In seguito queste petizioni e voti non solo non diminuirono, ma aumentarono di giorno in giorno per numero ed insistenza», perché si dichiarasse solennemente ciò che già si credeva e si onorava nella fede di tutti i credenti verso Maria. Era l’1 novembre 1950 quando avvenne la proclamazione.
Più volte papa Francesco ha ricordato il n. 12 della Lumen Gentium che dice: «Il popolo santo di Dio partecipa pure dell’ufficio profetico di Cristo col diffondere dovunque la viva testimonianza di lui, soprattutto per mezzo di una vita di fede e di carità. La totalità dei fedeli, avendo l’unzione che viene dal Santo,(cfr. 1 Gv 2,20 e 27), non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo, quando “dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici” mostra l’universale suo consenso in cose di fede e di morale».
Andrej Sinjavskij [Qui], in uno studio su paganesimo, magia e religione nel popolo russo, ricorda che la fede popolare russa è sotto molti aspetti una religione della maternità. Questa distingue tre madri, differenti ma al tempo stesso affini: «La prima Madre è la santissima Madre di Dio, la seconda madre è l’umida terra e la terza è quella che ha sofferto per te i dolori del parto ed è per ciascuno la propria madre».
L’immaginazione popolare ricordando i tre sepolcri del Cristo, di Maria e di Giovanni amplifica l’onore reso a quello della Matuška e un anonimo autore di inni lo arricchisce di particolari rispetto agli altri: «Piccola Madre, Maria, Madre mia».
“Sulla tomba di Gesù
Ardono ceri,
Su quella del Battista
Splendono lumi,
Su quella della Vergine
Un virgulto è spuntato
Su di esso
Tre uccellini son posati
Tre uccellini son posati
Cantano addolorati
Cantano addolorati
Annunciano alla gente
Il distacco imminente”
Il canto e il virgulto sono preludio del sorgere di un nuovo paradiso, di una terra nuova, pure lei, la terra, madre dei dolori come Maria; ancora e di nuovo sarà benedetta: «La Madre-umida terra che davanti al Signore s’affligge e si scioglie in lacrime amare» e che dice «Mi pesa, Signore, lo stare/ Sotto tanti peccatori. Pesano talmente/ E vivon senza legge e senza onore»; anche a lei le lacrime saranno asciugate. Di più. Come c’era da noi l’usanza di bagnarsi gli occhi con la rugiada del mattino di Pasqua, così nella tradizione popolare russa vi era l’usanza, al primo tuono primaverile, di inchinarsi alla terra e, dopo essersi segnati, di baciarla.
Ne I Fratelli Karamazov così parla lo starec Zosima: «Non cercare mai ricompense, poiché anche senza di esse è già grande la ricompensa che ti tocca su questa terra: la tua gioia spirituale. Non aver paura dei grandi, dei potenti, ma sii saggio. Ritrovandoti in solitudine, prega. Ama prostrarti a terra, e baciarla. Bacia la terra, e senza posa, senza mai saziartene, ama, ama tutti, ama tutto, cerca l’estasi e l’esaltazione. Bagna la terra con le lacrime della tua gioia e ama queste tue lacrime. Non vergognarti di questa esaltazione, che ti sia cara, poiché è un dono di Dio, grande, e non a molti è dato, ma solo agli eletti».
Nel racconto del suo discepolo Aleksej Fëdorovič sarà proprio in questo modo che morirà il monaco Zosima: «Tutti allora s’alzarono dal loro posto e si precipitarono verso di lui; ma lui, pur sofferente, continuava a contemplarli con il sorriso, si lasciò scivolare lentamente dalla poltrona al pavimento e si mise in ginocchio, quindi si chinò col volto a terra, stendendo le braccia e, come in preda a un’estasi di gioia, baciando la terra e pregando (come lui stesso aveva insegnato), rimise quieto e gioioso l’anima a Dio», (ivi, Milano 2016, 480; 484).
L’immaginazione popolare racconta in un inno Il sogno della Madre di Dio. Maria vede il destino che l’attende e che attende il suo Figlio e dice al Figlio: «Mi lasci sola – me tua Madre?/ E chi consola – i giorni della mia vecchiaia?». Nel sogno Cristo stesso prova a consolarla rivelandole la sua glorificazione, mostrandole la sua Dormizione/Ascensione e la chiama teneramente Matuška, mammina.
“Verrò io stesso, Mammina a trovarti,
Sarò io stesso, Vergine pura, a confessarti,
Io stesso la tua anima santa raccoglierò
Io stesso le tue reliquie sante seppellirò,
Il tuo volto su un’icona dipingerò,
Il tuo volto sull’altare appenderò
In tutte le chiese cattedrali del Signore.
Davanti al tuo Volto pregherò
E il tuo Santissimo Volto bacerò.
Mi congedo da te, mammina cara,
Le tue reliquie venererò,
Lasciandole mi inchinerò,
Io stesso la tua anima accoglierò
Con me nel regno dei cieli …”
(Cfr. A. Sinjavskij, La Madre-umida terra e la Madre di Dio, in Ivan lo Scemo, Guida Editori, Napoli 1993, 227-238).
Non so come, né perché, ma è andata proprio così, come ora vi racconto. Preso da questi testi poetici ho sentito il desiderio di onorare questa festa della Matuška dormiente e accompagnarla poi nel suo transito verso il Figlio con un dono. Ma quale? Il grazie della preghiera? Una liturgia cantata? Certo, ma quella era scontata. Serviva qualcosa in più.
Così, passando per il cuore, il desiderio ha preso la forma di una intuizione: il dono di un vestito – ecco l’idea – un vestito nuovo per il suo viaggio. Sì, un vestito per Maria; ma non uno normale di tessuto. Piuttosto un “vestito di poesia”: tessuto di parole sulla soglia di finito e infinito, quelle desolate dei poeti che scendono giù nel pozzo dell’esilio e risalgono pregne di mistero; lucciole appena, in una notte senza luna; briciole su una tavola senza pane.
Ho sperato così che là dove sarebbe giunto quel “vestito di poesia”, trapuntato di lucciole e briciole di pane, una parte di noi, della nostra umanità sarebbe arrivata prima di noi già al sicuro a quel termine ultimo di ogni umana e cosmica attesa. Così rivestita del dono di una umanità migrante, impoverita, affamata e stanca, la terrà con sé, avvinta alla sua innocente umanità, nell’abbraccio senza fine di una madre con un Figlio che perduto è stato ritrovato.
La cosa ancor più strana in questa storia, da non crederci, è che cercando, le parole stesse mi sono venute incontro lasciandomi senza parole:
“Ti cucirei un vestito
fossi capace
ti cucirei un vestito di poesie
mie.”
(Guido Catalano [Qui]).
“La stoffa è delicata
e non si trova in giro.
La trama è complicata…
si tesse con l’età.
(Eduardo De Filippo [Qui])
“Così per la lor via vanno le stelle,
Incomprese, immutabili!
Tu, mentre noi ci dibattiamo in vincoli,
di luce in luce ascendi.”
(Hermann Hesse [Qui])
“Beati quelli che nascono farfalle
o hanno luce di luna nel vestito!
Beati quelli che portano la rosa
e raccolgono il grano!
Beati quelli che non temono la morte
perché hanno il Paradiso
e l’aria che corre dietro a ciò che vuole
certa d’infinito!
Beati i gloriosi e i forti,
quelli che non furono compatiti mai,
quelli che frate Francesco esultando
benedisse e rallegrò!
(Garcia Lorca [Qui])
“Bambina mia,
Per te avrei dato tutti i giardini
del mio regno, se fossi stata regina,
fino all’ultima rosa, fino all’ultima piuma.
Tutto il regno per te.
E invece ti lascio baracche e spine,
polveri pesanti su tutto lo scenario
battiti molto forti
palpebre cucite tutto intorno.
Ira nelle periferie della specie.
E al centro,
ira.
Ma tu non credere a chi dipinge l’umano
come una bestia zoppa e questo mondo
come una palla alla fine.
Non credere a chi tinge tutto di buio pesto e
di sangue. Lo fa perché è facile farlo.
Noi siamo solo confusi, credi.
Ma sentiamo. Sentiamo ancora.
Sentiamo ancora. Siamo ancora capaci
di amare qualcosa.
Ancora proviamo pietà.
Tocca a te, ora,
a te tocca la lavatura di queste croste
delle cortecce vive.
C’è splendore
in ogni cosa. Io l’ho visto.
Io ora lo vedo di più.
C’è splendore. Non avere paura.
Ciao faccia bella,
gioia più grande.
L’amore è il tuo destino.
Sempre. Nient’altro.
Nient’altro. Nient’altro.
(Mariangela Gualtieri [Qui]).
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Andrea Zerbini
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