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Si entra nel Regno di Dio giocando! Penso che si possa intendere anche così l’ammonimento di Gesù quando ci dice che “Se non diventeremo come bambini, non entreremo nel Regno dei Cieli”. In che cosa infatti sono da imitare i bambini? Perché sono più grandi e degni del Regno di Dio? Perché sono inclini alla ricezione, sono disponibili a lasciarsi coinvolgere, a mettersi in gioco, a immedesimarsi, interpretare, trattenere in sé stessi, come una ragnatela, un radar per intercettare il reale che s’imprime in loro dal di fuori. Essi fanno così discernimento, apprendono, rielaborano, come un caleidoscopio, e ricreano la realtà ‘ri-esprimendola’ con il movimento del loro cuore di sistole e diastole, interiorizzazione ed estroversione; vengono impressi e si esprimono a loro volta. In una parola, ‘irradiano perché si sono lasciati irradiare’.
Allo stesso modo, i credenti che si mettono in gioco e si lasciano prendere dal Vangelo della gioia, ‘mollano gli ormeggi’ delle loro resistenze e prendono il largo. L’annuncio del Regno non rimbalza loro addosso come fossero roccia refrattaria, ma essi si fanno porosi e permeabili al Vangelo, come rocce ospitali ad acque sorgive, che li impregna e risgorga in loro rendendoli conca e canale dell’acqua viva dello Spirito, portatori di significati nuovi per gli altri. Occorre allora ri-diventare discepoli tramite la ‘scienza’ dei bambini: ovvero attraverso quel esercizio vitale dello spirito che è il gioco. Non per finta, intendo. Ma con la serietà del bambino che s’immerge nella propria attività, che vi ‘mette tutto se stesso’, senza risparmiarsi, con tutto il proprio corpo, intrecciando nella gestualità pensieri e azioni, facendo riemergere e rigiocando tutto quanto si è impresso in lui della realtà, che egli ha colto e accolto dall’esterno.

È lo stesso processo di assimilazione creativa che genera i loro sogni. Ne nascono fantasie, immagini, invenzioni che i bambini poi rigiocano al di fuori, sparpagliandoli, a testimonianza dello spirito che li abita. Quell’atteggiamento cui penso alludesse Gesù quando disse che “ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche” (Mt 13,52). Così, in fondo, è stato anche del ‘sogno di Dio‘, rigiocato prima da Gesù con il suo annuncio e la sua vita e poi nuovamente rimesso in gioco dal suo Spirito consolatore a Pentecoste. Tanto da far dire a Paolo, l’apostolo delle genti, impressionato dalla luce del Risorto sulla via di Damasco e poi divenuto “strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli” (Atti 9, 15): “Sia benedetto Dio, il quale ci consola in ogni tribolazione” (2 Cor 1, 3.4).
Tutto ciò mi richiama alla mente il sogno di Dio narrato dal profeta Zaccaria, il quale, nelle sue visioni, si prefigura il ricostituirsi del popolo di Dio disperso nell’esilio babilonese. In queste profezie è come se Dio sedesse, sconsolato, sui gradini del tempio di fronte a una città deserta, svuotata dei suoi abitanti e sprofondata nel silenzio: e lì Egli sogna la sua città com’era prima, brulicante di gente, di anziani e bambini schiamazzanti nelle piazze. Finché, ridestandosi da quest’immagine oramai perduta, promette a se stesso che “non può finire così; non può restare solo un bel ricordo; io sono un Dio fedele, lento all’ira e grande nell’amore; nulla mi può impedire per questo amore di ristabilire le sorti, di benedire ancora il mio popolo con quella benedizione capace di consolare e rinnovare l’alleanza”.
Così dice il Signore delle costellazioni: vecchi e vecchie siederanno ancora nelle piazze di Gerusalemme, ognuno con il bastone in mano per la loro longevità. Le piazze della città formicoleranno di fanciulli e di fanciulle, che giocheranno sulle sue piazze. Così dice il Signore delle costellazioni: Se questo sembra impossibile agli occhi del resto di questo popolo in quei giorni, sarà forse impossibile anche ai miei occhi?” (Zac 8, 4-6).

Le letture bibliche di questa VI domenica dopo Pasqua, con l’intreccio di verbi che le caratterizza, sono un invito alla ricezione e al rigioco: esse richiamano quella capacità di agire, di fare passi incontro, anche quando il movimento sembra partire da altri. Non si tratta infatti di replicare, ma di ricreare in modo nuovo: perché ‘ricevere‘ e ‘rilanciare‘ vanno all’unisono, tanto nel gioco quanto nella vita. L’intensità contenuta nell’azione ricevuta trova maggior slancio e ardore in chi, facendosi parte attiva della relazione, rilancia quanto ha ricevuto. Prima lettura: a coloro che “erano stati soltanto battezzati nel nome del Signore Gesù, i discepoli imponevano loro le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo” (At 8,17); seconda lettura: “Carissimi, adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza” (1Pt 3,15-16); vangelo: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre” (Gv 14, 15). Osservare (ob-servare) significa tenere gli occhi addosso, spalla a spalla, l’uno per l’altro; prendersi cura dell’altro, custodendo il comando dell’amore nelle relazioni e nelle proprie scelte. Aiutati in ciò dal Consolatore, Colui che resta e, continuando la presenza e l’opera di Gesù, insegna a fare memoria in noi della benedizione e della consolazione.

Maestri di questo stile di vita, allenatori di questo gioco in cui siamo chiamati a rilanciare l’amore ricevuto, sono Paolo e Barnaba (i.e. figlio della consolazione): “Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione! Egli ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui noi stessi siamo consolati da Dio” (2Cor 1,4). Un intreccio di relazioni quanto mai in sintonia con questo tempo dopo la Pasqua: un tempo unico di celebrazione e di vita incentrato sui suoi tre fuochi: il Figlio, il Padre, lo Spirito. Un’unica universale benedizione si sprigiona dalla risurrezione del Cristo dai morti, ascende con Gesù al Padre, per poi discendere con l’invio dello Spirito sui discepoli. Un tutt’uno, dunque, ben presente ai Padri della chiesa, per i quali le celebrazioni dopo la Pasqua non si distinguevano da essa, tanto da considerare i cinquanta giorni che disgiungono la Risurrezione dalla Pentecoste un unico grande giorno pasquale. Di qui il segno liturgico che, anche oggi, ci ricorda questa inscindibile connessione unificante: il Cero Pasquale sempre acceso, nell’unico tempo intervallato da cinquanta notti, che ci separa dall’arrivo dello Spirto.

Così, protesi al compimento della Pasqua che avverrà a Pentecoste, sulle orme del Risorto, proviamo questo esercizio spirituale che è il ‘rigioco della speranza‘. Si è ricevuto speranza: si rilancia sperando per tutti. Benedetti, si risponde benedicendo. Consolati, si reinfonde consolazione. Un po’ come nella storia di Rut (=amica), la straniera che, pur nella sua vedovanza, non rinuncia a farsi carico di Noemi, la suocera, e decide, per il bene ricevuto, di restarle accanto, ritornando con lei a Betlemme, la casa del pane. Noemi (=delizia) cambiato in Mara, (=amareggiata) potrà alla fine dire, non solo di Dio e di Booz, il suo parente che sposerà la nuora, ma anche di Ruth la straniera: “Benedetto colui che non rinuncia alla propria bontà” (Rt 2,20). Del resto, chi è, veramente, colui che è benedetto? Chi non rinuncia a benedire. E chi il consolato? Chi non rinuncia a consolare. Non stupisce allora che il termine ‘bontà’ sia reso in ebraico con hesed, fedeltà, come amore che scaturisce da viscere di compassione materne. Quell’amore Consolatore che a Pentecoste scenderà con l’impetuosità del vento e si dividerà in tante lingue come di fuoco; e posandosi sui discepoli infonderà loro vita, così da generare una ‘moltitudine di consolatori’, composta da tutti coloro che, come Lui, non rinunceranno a ‘stare vicino’ (parakaléin) e a ‘lasciarsi coinvolgere quando chiamati’ (ad-vocati). Tra essi, v’è sicuramente don Alessandro, che prima di ricoverarsi in ospedale scriveva ai suoi parrocchiani di Malborghetto invitandoli a non rinunciare “all’occasione di ritrovare uno sguardo di amore vero, sincero, buono verso il nostro prossimo… ‒ e continuava ‒ il nostro prossimo”.

Pensavo in questi giorni a una riflessione di Don Milani che sento molto mia. Più o meno era così: “Caro Signore, a voler essere sincero, mi rendo conto di averti amato e voluto un bene immenso, ma è molto di più quello che ho avuto per la mia gente e i miei ragazzi. E mi consola la certezza che Tu non dai peso a questi dettagli, che valuti come sciocchezze, perché il tuo sguardo sa dilatarsi e tutto comprendere, tutto discernere, in niente e in nulla si lascia sporcare dai sentimenti feriti, ma sa gioire dove, anche senza saperlo, l’amore lo accoglie, lo comprende, lo serve, lo cura“. E non dimentico, tra la moltitudine di consolatori, neppure il mio parroco don Piero e la sua consolante benedizione. Ricordo che, una mattina in ospedale, avevamo parlato insieme, a tratti. Don Piero faceva fatica a esprimersi, ma io avevo continuato a incalzarlo con alcune domande sul modo in cui comprendere una riforma nella chiesa. E lui, che era di poche parole, mi rispose che il cristianesimo doveva umanizzarsi, volgersi verso l’uomo, perché è attraverso gli uomini che Dio si mostra e vuole essere incontrato da noi. È la strada di un ‘umanesimo essenziale’; poi aggiunse: “La chiesa deve centralizzarsi», centrarsi” ‒ si corresse – e io gli chiesi: “In che senso?”. Rispose: “il centro è Cristo“. Quella volta, la penultima che lo vidi tra noi, gli chiesi di benedirmi. Lo fece con mano tremante e poi, in silenzio, toccò stranamente le cose attorno a lui: il suo braccio, il mio, la coperta, indicò gli oggetti sul comodino, poi sollevò lo sguardo verso di me e, dopo un momento di incomprensione, capii il linguaggio dei suoi occhi, che sembrava mi dicessero: “Ma come, don Andrea, dopo tanto tempo che ci conosciamo non hai ancora capito che già tutto è benedetto? In ogni cosa è racchiusa la benedizione di Dio, perché ogni cosa è suo dono, perché Lui è in tutte le cose”.

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.


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