‘Lo spiraglio dell’alba’ è l’Avvento.
Nel crepuscolo mattutino ha ‘il viso di terra scolpita’, ‘nel cuore, il silenzio’: è l’attesa di un volto:
«Nel crepuscolo l’acqua molle dell’alba
che s’imbeve di luce, rischiara il viso…
Il tuo passo e il tuo fiato
come il vento dell’alba
sommergono le case.
La città abbrividisce,
odorano le pietre
sei la vita, il risveglio.
Stella sperduta
nella luce dell’alba,
cigolío della brezza, tepore, respiro –
è finita la notte.
Sei la luce e il mattino»
(C. Pavese, Poesie, Torino 1998, 239).
Non so dirvi come, ma la lettura di alcune poesie di Cesare Pavese [Qui] hanno risvegliato in me il pensiero dell’avvento come a Pavese il volto amato, i suoi occhi, il suo ‘viso di primavera’. Ho voluto così seguire questa traccia poetica, aurorale, questa sperduta stella dell’alba, pur io acceso nel desiderio di cercare il volto nascosto dell’avvento e giungere alla luce del suo mattino.
Si narra che nel quieto silenzio che avvolgeva ogni cosa, la Parola ha cominciato a muovere i primi passi nell’inquietudine umana, dentro la sua mortale stanchezza. Si è messa in cammino mentre ancora era notte. La luce senza tempo che è apparsa nel tempo di avvento veniva ad illuminare la sua gente.
In questo venire senza sosta, stanco sarà anche il Verbo fatto carne il cui nome terroso è Gesù, pure lui stremato sul Golgota, pure lui senza una pietra dove posare il capo, perché diuturna sarà fino all’ultimo giorno la sua agonia per i cammini del mondo.
Scrive Pavese:
«In nessun luogo trovo più una pietra
dove posare il capo.
Tutte le cose mi hanno presa l’anima,
l’hanno accesa e sconvolta,
e poi lasciata stanca
a mordere se stessa…
E ancora dopo tante strade stanche sono solo in balia della mia anima
che a tratti mi pare
voglia strapparsi via
tanto si torce e sanguina.
Sono tanto stremato.
Dal primo giorno ardente
che ho levata la fronte
a cercare me stesso,
in nessun luogo più
ho trovata una pietra
dove posare il capo»
(ivi, 325-326).
Come il vivere, così l’avvento è un principiare, un cominciare di nuovo. Nessun luogo è l’ultimo. Errando stanchi è l’accadere di un nuovo inizio che si impone, che costringe all’attesa: da ciò che finisce spunterà dunque ancora un germoglio, un germoglio ancora.
Dice Isaia: «In quel giorno, un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici. Non giudicherà secondo le apparenze e non prenderà decisioni per sentito dire; ma giudicherà con giustizia i miseri e prenderà decisioni eque per gli umili della terra» (11,1-10).
Si può allora ricordare proprio un noto testo di Pavese ne Il mestiere di vivere (1935-1950), il suo laboratorio poetico in cui si dà coincidenza tra il tempo della scrittura e quello del vivere: «L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante. Quando manca questo senso – prigione, malattia, abitudine, stupidità, – si vorrebbe morire» (ivi, Torino 1990, 57).
Il tema del “cominciare” ritorna nelle poesie:
«Non abbiamo che questa virtù: cominciare
ogni giorno la vita – davanti alla terra,
sotto un cielo che tace – attendendo un risveglio.
Si stupisce qualcuno che l’alba sia tanta fatica;
di risveglio in risveglio un lavoro è compiuto.
Ma viviamo soltanto per dare in un brivido/ al lavoro futuro e svegliare una volta la terra.
E talvolta ci accade. Poi torna a tacere con noi… I lavori cominciano all’alba. Ma noi cominciamo
un po’ prima dell’alba a incontrare noi stessi
nella gente che va per la strada. Ciascuno ricorda
di esser solo e aver sonno, scoprendo i passanti
radi – ognuno trasogna fra sé,
tanto sa che nell’alba spalancherà gli occhi.
Quando viene il mattino ci trova stupiti
a fissare il lavoro che adesso comincia.
Ma non siamo più soli e nessuno più ha sonno
e pensiamo con calma i pensieri del giorno
fino a dare in sorrisi. Nel sole che torna
siamo tutti convinti. Ma a volte un pensiero
meno chiaro – un sogghigno – ci coglie improvviso
e torniamo a guardare come prima del sole»
(ivi, 428; 127).
C’è un germoglio di avvento anche per Cesare Pavese − ho pensato − e sta proprio nascosto nella sua anima poetica, di una inquietudine esausta, tra il sole che torna sempre di nuovo e oscuri pensieri che lasciano gli occhi “come prima del sole”.
«Il suo ritratto è ben lungi dall’esaurirsi in quelle che sono le scelte critiche dettate da un’adesione non solo all’arte ma anche all’eroica esperienza esistenziale dello scrittore», scrive l’amico Gianni Venturi, che negli anni mi ha donato i suoi saggi su Pavese.
Vale allora lasciar fare strada alla sua riflessione, lasciarsi guidare da lui: «C’è stato un momento in cui si veniva costruendo un caso Pavese con tutte le assurde conseguenze e strascichi di una polemica che investiva maggiormente il suo atteggiamento umano e politico che non l’effettiva portata del suo altissimo magistero etico ed artistico.
A questa visione unilaterale reagiva, ad esempio, Claudio Varese [Qui] il quale puntualizzava il discorso, scrivendo che la storia dell’uomo Pavese, se può apportare una certa chiarezza nel configurarsi o nell’atteggiarsi di certi valori (o disvalori), risulta sterile se non si appoggia ad una visione più ampia che includa non solo l’uomo ma anche, e soprattutto, il poeta e la sua opera. In questo articolarsi dell’uomo e dell’opera sta la possibilità di cogliere il senso dell’arte pavesiana che è allo stesso tempo prismatica e unica» (Cesare Pavese, in Belfagor, 4 (1967), 454).
Vivere l’avvento è mettersi in ascolto, incominciando dall’attenzione dello sguardo. Nella Genesi in principio sono i volti, quelli dell’uomo e della donna. In principio, nel prologo di Giovanni, è la Parola di Dio che si fa volto umano, volto del figlio amato.
Vivere l’avvento significa rincominciare dai volti che incontreremo strada facendo, perché ogni volto umano è prismatico ed unico, e nasconde un’interiorità poetica ed orante insieme, dolente e raggiante, disperata e sperante. Il volto è sacramento, che rivela nelle tenebre esteriori l’interiorità: il riverbero di una flebile luce, come il tremare di una candela o improvviso, come di un lampo: «come il lampo esce da levante e si vede fino a ponente, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo» (Mt 24,27).
«I volti dell’avvento sono questi/ che attraversano il freddo del mattino/ e han conosciuto le disfatte della vita/ dove la crosta dell’umiliazione rompe/ già sorge umile l’attesa. Non per sempre amari fantasmi/ graveranno la vita/ una candela rischiara,/ albeggia/ già le porte serrate sono aperte/ i furori del cuore cantati/ e umanamente è detto/ che senza limiti/ è la misericordia» ci ricorda Domenico Cardi (Non basta la terra. Poesie, Bose 1997, 58).
Sono passati ormai molti anni, era l’aprile del 2001, ma il ricordo è vivo. Andai a visitare nell’imponente edificio in stile neoclassico del Palazzo delle Esposizioni in via Nazionale a Roma due mostre in contemporanea, quella iconografica de Il volto di Cristo e quella fotografica dedicata a Mario Giacomelli [Qui], fotografo/poeta.
Due itinerari apparentemente divergenti e non accostabili immediatamente nella mente di chi iniziava il percorso. Tuttavia, man mano che ci si lasciava afferrare dalle immagini, emergeva in modo convincente l’intuizione che li aveva pensati insieme: la ricerca dei volti che si incontrano per non dimenticarsi più.
Da una parte un’itineranza, quella dei cristiani, che ormai vedevano allontanarsi nel tempo il ritorno imminente del Signore e desideravano sempre più avere immagini che custodissero la memoria dell’aspetto di Gesù fino al suo ritorno; dall’altra i volti di Giacomelli, di persone, di paesaggi, della terra stessa solcata, come i volti dei deboli e dei disperati, da infiniti solchi oscurati, sfigurati dal male e tuttavia capaci di ridere.
Volti nel contrasto esasperato di bianchi e di neri, come se fossero immagini al negativo. Verrà la morte ed avrà i tuoi occhi, di Pavese ed altri testi poetici di Turoldo, Leopardi, Borges, Luzi, Dickinson erano come la voce testuale, narrante delle immagini, come se la poesia infondesse parola a quei volti.
Le foto di Giacomelli creavano itinerari che salivano dal basso, dischiudendo allo sguardo spazi di ‘terrestrità’; spazi non chiusi, ma aperti a qualcosa di atteso; volti che via via si nascondevano, si riducevano, impoverendo la forma e quasi sparendo nei diversi orizzonti figurativi per giungere a rappresentare quel testo, Io sono nessuno, della Emily Dickinson [Qui].
Vi era pure, guardando le icone del Volto santo, una strada che scendeva e invadeva gli spazi di terrestrità: era il volto singolare della ‘celestialità’, che assumeva i tratti dell’umano e si nascondeva nei volti degli uomini, prendendone di volta in volta i lineamenti, accettando di divenire sconosciuto, senza apparenza né bellezza da attirare gli sguardi; volto dei dolori che conosce il patire, volto perduto nei volti dimenticati.
Tutti quei visi si mescolavano, si amalgamavano in una comunanza di destino al tempo stesso convergente e centrifuga per cui il Volto santo li riassumeva tutti e tutti i volti riflettevano e manifestavano, ciascuno per la sua parte, la singolarità dell’Unico volto.
Solitudine spezzata, perché condivisa nell’accondiscendenza degli sguardi: quello di Cristo che si abbassa e si china per abbracciare e sollevare quelli degli uomini, ma anche gli ‘sguardi’ dei campi, delle valli, della terra, che sembrano levarsi in attesa di incrociare e scrutare il volto sconosciuto, ancora invisibile, ma promesso e atteso venuto a mutare le sorti facendole sue.
Scrive Friedrich Hölderlin [Qui] nel Canto del destino di Iperione:
«Ma a noi è dato
in nessun luogo posare;
scompaion, cadono
soffrendo gli uomini
ciecamente
di ora in ora,
com’acqua da masso
a masso lanciata
senza mai fine, giù nell’ignoto.»
Anche per il Cristo l’avvento è ancora un discendere e continuare a venire nel destino di ciascuno, “come acqua da masso a masso”. Pure a lui “è dato in nessun luogo posare il capo”, finché non giunga al fondo, giù “nell’ignoto”, per poi risalire, non da solo, ma portando tutto l’umano, i nostri volti trasfigurati e luminosi.
Un tale disse a Gesù: «Maestro, ti seguirò dovunque tu vada». Gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Lc 9,58).
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Andrea Zerbini
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