“Amor dammi l’Amore!”: un mormorio
Di gente in pena. L’Ostia, in alto, casta
Attrae i cuori: “Sì, vivere è Cristo”
(C. Rebora [Qui], Le poesie, Milano 1988, 271).
Quale liturgia per il cambiamento d’epoca? Una liturgia come poesia.
Nella poesia come nella liturgia c’è qualcosa che ha la forza di risvegliare la coscienza, di farla uscire dall’oblio e portarla in presenza del reale. Anzi l’immerge in esso, facendola poi riaffiorare fuori dalle nebbie romantiche e dalle forme senz’anima, estetizzanti, come di chi si guarda allo specchio e poi se ne va, spettatore smemorato della vita.
Liturgia e poesia aprono gli occhi della coscienza al mondo. Sono soglia che introduce alla presenza dell’Altro/d’altri come realtà viventi, concretissime. Esse ridestano lo spirito dal letargo dell’indifferenza, smuovendo la cenere nichilista, che spegne la brace fumigante, che spezza la canna incrinata, che rinchiude nei concetti e nei ruoli la persona rincorrendo fantasmi.
Vocazione di entrambe è strutturare legami, dare forma alla personalità, risvegliarla alla decisione della libertà di prendere parte ai destini umani con cui ci si intreccia.
«Risveglia la tua potenza e vieni» (Sal 80), sembrano allora dire con il salmista anche la liturgia e la poesia al mistero che portano in grembo. Mistero di povertà e ricchezza, di forza e debolezza, di dolore e gioia, perduto e sempre ritrovato, celato ma sempre risorgente: portatrici dello Spirito che abita ovunque la realtà.
L’azione dello spirito non impone, non sequestra la libertà, ma la libera, dischiudendo in essa una sorgente che nasce da lei e perciò le appartiene. Scrive Romano Guardini [Qui]: «Egli tutto scruta, è lo Spirito della disciplina e della pienezza. Tutto è affidato a Lui, Egli è la Luce e l’Amore; risveglia l’Amore e solo l’amore vede con chiarezza; ordina l’amore e fa sì che diventi verità in cui luminosamente si scorgono le esigenze di Cristo e del Regno; opera l’essere veri nell’amore», (Il senso della Chiesa, Brescia 1960, 101-102).
Cade così il muro, l’individualismo che si frappone tra le persone. Ritorna a farsi sentire il mondo interiore dell’altro, l’interiorità della storia come concretezza, come dato: non già come idea o visione, ma come realtà effettiva e affettiva, risvegliata dall’esserci in presenza d’altri, rendendo così possibile nella comunanza la piena socialità delle personalità.
Lo spirito della liturgia e quello poetico sono in noi con un venire sempre nuovo, determinano al nostro fianco una crescenza, un sempre nuovo avanzare.
Di più. Entrambe risvegliano «l’aspirazione per l’altro, la nostalgia di scoprire un altro uomo anche “di là”. Si risvegliava il desiderio di comprensione e di colleganza… La comunanza rettamente intesa non rende comuni né volgari, come accade con quella falsa. È felicità, è fonte di forza; mette alla prova la forza di resistenza e insieme la docilità del nostro essere personale. La nobile comunanza è nobile compito e opera elevata» (ivi, 107; 109).
Guardini scrive questo testo per una conferenza nel 1922, proprio cent’anni fa. Eppure già allora egli percepiva con la sua sensibilità di credente «il risveglio della chiesa nelle anime» − espressione divenuta famosa − indicando la consapevolezza d’una nuova stagione nella storia della Chiesa.
Il credere e il suo pensarsi sbilanciato sul versante intellettualistico, individualistico e pietistico nella controversia illuministica si risvegliava in quello dell’esperienza dello spirito, dell’affectus che convoca in presenza dell’amore la comunità per rinnovarla.
La fede tornava a comprendersi come accoglienza di una realtà amabile e amante: «ciò che si presenta alla coscienza del credente non è propriamente una ‘verità’, o un ‘valore’, bensì l’accoglienza di una realtà, quella del Dio santo nel Cristo vivo», (Il Signore, Brescia 2005, 264).
Si risvegliava la coscienza della Chiesa come realtà vivente, Corpo di Cristo, di cui ogni singolo credente è chiamato in quanto battezzato ad avere parte al triplice dono/compito profetico sacerdotale e regale di Cristo, e a misurarsi di nuovo con la realtà del mondo in un’attiva e amorosa partecipazione.
Per questo il Concilio dirà della liturgia essere culmine e fonte della vita della Chiesa, luogo di una «actuosa partecipatio» al mistero pasquale/eucaristico, «sacramento di amore, segno di unità, vincolo di carità», (SC 47-48).
Liturgia: l’opera che appartiene a tutto il popolo, opera sua e per tutti dice l’etimologia, un azione trasformante, a partire dalla realtà stessa posta in relazione.
Già lo aveva preconizzato Romano Guardini quando scriveva: «La liturgia è integralmente realtà. Si distingue da qualsiasi pietà di solo concetto o di sentimento, dal razionalismo e dal romanticismo religioso. Il fedele vede in essa realtà terrene, uomini, cose, azioni, oggetti – e insieme il Cristo reale, la Grazia reale. La liturgia non è solo pensiero, né solo sentimento; è prima di tutto un addivenire all’essere, un nascere, maturare, essere. La liturgia è un divenire fino al compimento, uno svilupparsi fino alla maturazione», (Il senso della chiesa, Brescia 1960, 36-37).
La liturgia e la poesia ci sono date «per vivere sotto lo sguardo di qualcuno», che ci risveglia e ci fa crescere: esse ci mettono in presenza dell’altro per poter vivere e dimorare in esso.
L’azione liturgica è come fare «un gioco dinanzi a Dio, non creare, ma essere un’opera d’arte, questo costruisce il nucleo più intimo della liturgia… Essere artista significa lottare per esprimere la vita profonda, affinché, espressa che sia, essa possa esistere. E null’altro: ma non è già molto questo?
È niente di meno che un’imitazione della creatività divina, della quale si dice che abbia fatto le cose ut sint, perché semplicemente esistano. La stessa cosa fa la liturgia. Anch’essa ha cercato con cura infinita, con tutta la serietà del bambino e la coscienziosità rigorosa del vero artista, di dar espressione in mille forme alla vita dell’anima, vita santa alimentata da Dio, mirando a null’altro se non a che essa vi possa dimorare e vivere…
La liturgia ci è data per vivere sotto lo sguardo di Dio. Agire liturgicamente significa diventare, vivente opera d’arte dinanzi a Dio, con nessun altro scopo se non d’essere e vivere proprio sotto lo sguardo di Dio… La liturgia non è, nella sua essenza, religione di spiriti colti, bensì di popolo», (Lo spirito della liturgia, Brescia 1996, 80-81).
Per Paul Ricoeur [Qui] «il linguaggio poetico cambia il nostro modo di abitare il mondo. Dalla poesia noi riceviamo un nuovo modo di essere nel mondo, di orientarci in questo mondo», (Cit. in M. Campedelli, Un incontro sulla soglia: poesia e liturgia, RTL 274 2009, 61).
Vivere la liturgia significa allora abitare poeticamente la realtà, proprio come il poeta che si libera dalla visione ordinaria delle cose, al fine di essere libero per accogliere un nuova presenza, il formarsi di una nuova realtà che lo plasma e la cui parola poetica porta alla luce.
Nella poesia come nella liturgia accade e si esprime uno stato d’animo tale da disarticolare la realtà abituale, il suo orizzonte monotono e impenetrabile, aprendo un varco in essa per far passare un altro modo di vivere nel mondo, di pensare, di sentire, di vedere la vita: una nuova immagine si dà a vedere e toccare, un mondo altro in cui entrare e dimorare.
Il poetico sta alla liturgia come le acque di un fiume carsico. La poesia, intesa come poiesis è abilità a fare, creatività dello spirito dentro la liturgia stessa, generativa dell’esperienza di essere creati e ricreati attraverso le sue parole e i santi segni.
In essa si fa esperienza di quanto riferisce Giovanni nelle lettere: «Quel che era dal principio, quel che abbiamo udito, quel che abbiamo visto con i nostri occhi, quel che abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato della parola della vita (poiché la vita è stata manifestata e noi l’abbiamo vista e ne rendiamo testimonianza), quel che abbiamo visto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché voi pure siate in comunione con noi».
Il cuore poetico della liturgia è il mistero pasquale. Da questa nuova creazione la vita, il mondo, il cosmo vengono riaperti, generati a vita nuova. Nella risurrezione viene disarticolata la morte e proprio da essa l’orizzonte di una nuova vita è donata e fatta partecipe a tutti.
Gli scritti del poeta e teologo ortodosso Olivier Clément [Qui] sono stati decisivi per aprire a nuovi orizzonti il mio vivere e pensare la fede. Egli parla della poesia e del suo compito di risvegliare la coscienza alla realtà, quale compito profetico che fa breccia nel conosciuto, nel prevedibile, facendo affiorare l’imprevedibile, il mistero nascosto nell’ordinario, nel feriale orizzonte un orizzonte festivo, parola sempre nuova rivelatrice di una alterità nascosta, ma che invocata si fa presente:
«È compito del poeta − e attraverso questo indubbiamente egli profetizza − provocare un risveglio. I vecchi asceti dicevano che il più grande dei peccati è l’oblio: quando l’uomo diventa opaco, insensibile, talora indaffarato, talaltra miseramente sensuale; quando diventa incapace di fermarsi un istante nel silenzio, di meravigliarsi, di vacillare davanti all’abisso, per l’orrore o per il giubilo; quando diventa incapace di ribellarsi, di amare, di ammirare, di accogliere lo straordinario negli esseri e nelle cose; quando insomma diventa insensibile alle sollecitazioni segrete, anche se così frequenti, di Dio.
Allora interviene il poeta… Perciò la poesia − più in generale l’arte – ci risveglia. Essa ci cala più in profondità nell’esistenza. Fa di noi degli uomini e non delle macchine. Rende solari le nostre gioie e laceranti le nostre ferite. Ci apre all’angoscia e alla meraviglia».
Di seguito poi O. Clement cita un testo poetico di una liturgia nella vita: «L’Umiltà dell’ultima rosa in Achmatova: “Signore, tu vedi quanto sono stanco/ di risuscitare, di morire e di vivere./ Prendi tutto, ma di questa rosa rossa/ possa sentire ancora la freschezza”, In memoria di Bulgakov, 1940», (Il potere crocifisso. Vivere la fede in un mondo pluralista, Mangano [Bi] 1999, 69-71; 73).
Questo per me è lo spirito della liturgia, così è viverla, perché queste parole risvegliano in me quelle umilissime parole, ma traboccanti fiducia, del Figlio amato: “Padre nelle tue mani affido il mio spirito”. Come rosa rossa che mai appassisce sono le mani del Padre che profumano della grazia fragrante del Risorto dai morti.
Termino così come ho iniziato, con una poesia di Rebora che fa risuonare, ancora oltre, le parole di Anna Andreevna Achmatova [Qui]; a lei grato per continuare a sentire, di quella rosa rossa che per me è la liturgia, ancora oggi, la freschezza.
«Bocciòlo di rosa reciso!
Ma ecco nell’acqua si schiude:
l’effluvio si effonde: il sorriso
dei petali casto si indora.
Nel freddo angusto vasetto
da poca inerte acqua che affiora
donde hai tratto il getto e il vigore?
Come vesti tanto splendore?
Oh cuore del mondo reciso!
Ma ecco la Grazia ti irrora,
l’Amore infinito dilata
il tuo nulla: palpita grande
il Signore, circola il Sangue,
lo Spirito buono ti sana,
con te piange, e in pace t’irradia:
nel mondo ti dà il Paradiso.»
(Le poesie, 412)
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Andrea Zerbini
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