Il nascere della parola di Dio nella forma terrosa, dentro la tenda d’argilla della nostra umanità, è simile al risvegliarsi del nostro dire, l’inizio rinascente della parola dopo il silenzio della notte. Parola sorgiva, unica, irripetibile, rispetto a quelle che seguiranno. Così come irripetibile, nel giorno, è il sorgere dell’aurora: quell’istante lunghissimo di puro abbandono, un consegnarsi confidente all’oscurità che continua a ad ergersi di fronte, impenetrabile. Allo stesso modo l’incipiente parola si fa animo rompendo il generale silenzio, come germoglio che apre la terra e subito si dischiude alla parola la luce.
Così come, al momento della sua nascita, il primo balbettio di Gesù viene generato e anticipato da quell’ “eccomi” di smisurata e disarmante fiducia pronunciato dalla Madre, acclamata nella liturgia “mistica aurora della redenzione” ‒ in modo tale che lui pure, il figlio, venendo alla luce ripete, accordandosi con lei, il suo “eccomi”, al quale seguiranno, come da fonte cristallina, tutte le altre parole come una buona notizia, un vangelo ‒ parimenti avviene in noi al risveglio della parola che germina dal silenzio. È nota primigenia, cantus firmus, melodia che permane velata, come base comune in una composizione polifonica. Essa subito si sottrae, nascondendosi tra le linee del pentagramma, lasciando libero lo spartito per le altre note che seguiranno. E tuttavia di lei s’intende sempre come un’eco profonda che lascia in ogni nota la sua impronta e la sua fiducia.
Fiducia, certo: perché ci ricorda Maria Zambrano che al risveglio la parola iniziale non viene mai da sola, ma è sempre accompagnata da una fiducia radicale che per questa filosofa spagnola costituisce la radice stessa della parola nascente: «la parola si desta dentro questa fiducia radicale che si annida nel cuore dell’uomo e senza la quale egli non parlerebbe mai. E si direbbe persino che la fiducia radicale e la radice della parola si confondano tra loro, o si diano in un’unione che permette alla condizione umana di emergere. È di indole docile la parola, lo mostra nel suo destarsi quando comincia a sgorgare indecisa, come un sussurro in parole slegate, in balbettii, appena udibili, come un uccello ignaro che non sa dove andare, ma si dispone ad alzare il suo debole volo. E la parola originaria, ritiratasi in sé, torna al suo silenzioso e nascosto vagare, lasciando l’impronta impercettibile della sua diafanità. Non si perde, però. Come un balbettio, come un sussurro della fiducia inestinguibile, attraverserà la serie delle parole dettate dall’intenzione, liberandole per qualche attimo dalle loro catene. E in questa breve aurora si avverte il germinare lento della parola nel silenzio. Nel debole bagliore della resurrezione la parola finalmente si stacca lasciando intatto il suo germe, annunciato dal pallido albeggiare della libertà, un attimo prima che la realtà irrompesse. E così la realtà rimane sorretta dalla libertà e con la parola avviata a dirsi, a prender corpo. La parola e la libertà precedono la realtà estranea, che irrompe dinanzi all’essere non ancora compiutamente destatosi nell’umano» (Chiari di bosco, Milano 2004, 28-29).
Così sento il Natale del Signore, il venire della sua parola in me, come l’aurora nella mia notte che sprigiona il mio “eccomi”: parola primigenia che si affida. Se ritarda, l’attendo con fiducia, memore delle parole del profeta Abacuc: «se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà. Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fiducia» (2,3).
Si raccontano storie e si intonano canti soprattutto quando la fiducia si restringe, quando la si vuole ridestare nel cuore oppresso e appesantito dal sonno per l’attesa in una lunga veglia. Fu in simili circostanze che il vescovo Ambrogio di Milano compose i suoi inni. Era la settimana santa del 386, e Ambrogio si trovava barricato, giorno e notte, con i suoi fedeli all’interno della basilica di Milano, per difendersi dagli assalti degli ariani e delle truppe dell’imperatore. E fu proprio il canto degli inni da lui composti a infondere coraggio, a ridestare la fiducia del suo popolo mantenendo viva in loro la speranza di una riuscita. Da quel momento, grazie ad Ambrogio, nella chiesa latina si iniziarono a cantare inni e salmi secondo l’uso delle chiese orientali. Una prassi diffusa anche da Agostino che apprese da Ambrogio quell’ascoltare “la parola di dentro” che è il canto e non solo la “parola dall’esterno” recitata. Un canto scaturente da un atteggiamento interiore, orante e amante, perché «cantare ‒ egli diceva ‒ è proprio di chi ama».
Sono convinto che valga la stessa cosa per il narrare. Ed è per questo che voglio raccontarvi una storia che scrissi per un Natale di tanti anni fa, sulla necessità di attendere ciò che tarda a venire, fosse anche la Parola di Dio in questo particolare e ristretto Natale.
«Quell’anno la stella cometa giunse in anticipo a Betlemme. Aveva perso un poco della sua luce girando attorno al sole, ma aveva due code, e così era diventata più veloce. La luna era già quasi piena, e lo sarebbe diventata del tutto proprio la notte di Natale. Scese rapidamente su Gerusalemme, attraverso una densa coltre di nubi che copriva la città e si diresse subito a Betlemme.
Ma tutte le luci erano ancora spente, e quando arrivò alla capanna non trovò nessuno, nemmeno il bue e l’asinello o i fuochi dei pastori. Si sentì sola, una piccola luce in mezzo ad una grande oscurità.
Si fece coraggio e si mise ad aspettare. Ma aspetta che ti aspetta, il tempo passava e non si vedeva nessuno. Scoccò la mezzanotte ma niente ancora. Allora la cometa cominciò a dire tra sé: “visto che Erode cerca il bambino per ucciderlo, forse nascerà da un’altra parte! E i magi avranno seguito un’altra stella. Ma che tristezza essere venuta qui per niente”. “Quasi quasi me ne vado ‒ pensò dentro di sé ‒ almeno lassù in cielo avrò la compagnia delle altre stelle e della luna piena”. Aveva già puntato verso il cielo quando vide arrivare un pastore, che subito rivolgendosi alla stella disse: “ma guarda, credevo di essere in ritardo, ma non c’è ancora nessuno se non tu; meno male”.
“Dimmi tu invece ‒ rispose la stella al pastore ‒ è proprio qui l’appuntamento?”, “Certo, certo rispose lui, ma non capisco questo ritardo”. Passò un’altra ora e alla stella scappò detto: “ma non verrà più, vedrai”. E continuò: “Qualche anima buona avrà ospitato Maria e Giuseppe nella propria casa”. “Ma nooo! ‒ disse un terzo pastore che nel frattempo era arrivato ‒ gli angeli non si sbagliano, hanno detto di venire proprio qui”.
E aggiunse poi che un profeta aveva scritto: “Lo splendore apparirà alla fine, e non mentirà: se tarda, attendilo, perché certo verrà e non indugerà” (Ab 2,3). “A volte le cose si dicono tanto per dire… io vado”, disse la cometa. “Aspetta” – la interruppe il primo pastore: “con noi, ora non sei più sola”; “aspetta ‒ disse il secondo ‒ le nubi si stanno diradando spinte via dal vento”. “Aspetta, aspetta, aspetta ‒ le disse il terzo ‒ ho visto tumulto a Gerusalemme e partire da essa una carovana di tre re”.
Così la cometa aspettò. E ogni pastore che arrivava le suggeriva di continuare ad aspettare e in quell’attesa, ad uno ad uno, i pastori cominciarono a raccontare le loro storie. Così il tempo passò e la cometa non si accorse nemmeno dell’arrivo dei viandanti di Nazaret. Solo gli altri pastori che vegliavano un poco più lontano il gregge videro arrivare Maria e Giuseppe e Gesù, che era già nato, avvolto in fasce, in braccio a Maria e diedero subito una voce.
“Oh…” ‒ dissero ‒ “ma cos’è successo?” ‒ chiesero tutti. Allora Giuseppe raccontò che mentre erano in viaggio sentirono nell’oscurità piangere sommessamente in lontananza; lasciarono il sentiero e si addentrarono nei campi. Il pianto si fece più vicino e forte. Allora si affrettarono e scorsero, al riparo di una grotta, due persone, un uomo e una donna, con un bambino che aveva la febbre alta e le convulsioni. Ma proprio in quel momento giunse per Maria il tempo del parto e diede alla luce il suo figlio Gesù. Appena nato lo adagiò accanto a quel bambino febbricitante e Giuseppe coprì entrambi con il suo mantello. Maria iniziò a cantare un salmo e l’altra madre la seguì nel dolce canto: “Signore non si gonfia il mio cuore, superbia non turba il mio sguardo, non vado in cerca di cose grandi come bambino in braccio a sua madre; tranquillo e sereno mi sento come un bimbo svezzato su di me; è il mio cuore in Dio, speri sempre il suo popolo in lui.”
Allora la stella si riempì di grande splendore, tanto da illuminare quel luogo di una luce così splendente che la videro perfino da Gerusalemme, sino a oscurare la luce della luna piena e attirare a sé tutte le luci del cielo. Era così risplendente che quella notte sembrò un giorno radioso.
Fu allora che la stella disse ai pastori che tutta quella sua luce era tenebra al confronto di quella piccola luce che irradiava dalla famiglia di Nazaret. Maria e Giuseppe con il bambino erano in ritardo all’appuntamento perché, seguendo un’altra stella, quella parola di Dio, dono per ogni uomo che vive in questo mondo, avevano fatto un’altra strada più lunga.»
Una parola che narra di una compassione senza misura si espone per natura al ritardo. La compassione fa cambiare strada ogni volta che sente il pianto di un figlio ed Egli, ogni volta, gli va incontro attraverso il suo Figlio unigenito.
Così all’udire quelle parole i pastori compresero il versetto del salmo che dice: «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino».
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Andrea Zerbini
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