“L’amicizia è metà della vita”: così chiosava spesso mio padre mentre mia mamma, dopo avere aperto le finestre alla mattina, salutava tra le tende al vento la sua amica Solange, con animo grato e benedicente. E mi soprese un giorno don Ones – il precedente parroco di origini tanzaniane di Santa Maria in Vado – quando durante la chiusura del ‘fioretto’ di maggio, per le vie e le case della parrocchia, gli raccontai della frase ripetuta da mio papà e lui, sorridendomi, gli fece eco in Swaili: “Urafiki ni nusu ya maisha”, che significa proprio la stessa cosa.
L’episodio mi torna alla mente, oggi, pensando allo Spirito di cui furono pervasi gli apostoli, capace di declinare l’unico amore del Padre in tutte le lingue del mondo. Accadde a Pentecoste, festa del raccolto, mietitura della Pasqua, che come una benedizione compie il tempo del seminatore e ne ribalta le sorti: “Chi semina nelle lacrime mieterà nella gioia. Nell’andare, se ne va piangendo, portando la semente da gettare, ma nel tornare, viene con gioia, portando i suoi covoni” (Sal. 126). Così, posso ben dire anch’io di questa benedizione e compagnia dello Spirito, dono di amicizia del Crocifisso Risorto, che essa ‘è la metà della vita’.
In verità, tale benedizione era già presente fin all’inizio. Aleggiava sulla terra e sull’uomo lungo i sette giorni della creazione, scandita dalle parole: “e vide che era cosa buona e molto bella” (Gn. 1,12-25). Una benedizione che di lì mai si è disgiunta dal cammino evolutivo e storico dell’umanità, come un dono capace di svelare al contempo la nostra chiamata alla relazione, a vivere in fraternità, anche con sorella terra, senza nascondere la nostra nudità e vulnerabilità, che nasce dalla consapevolezza e dall’esperienza che l’altro mi manca e non posso farne a meno per uscire da questa mortale solitudine. “Pas sans toi” direbbe Michel de Certeau.
Ma non è solo questa la forza benedicente dello Spirito. È anche dono perdonante, promessa di nuova ospitalità, abile nel legare relazioni e scogliere catene inique, liberatrice da ciò che asservisce lo spirito. È attesa paziente per ripartire da nuovo; rilancio della vita anche di fronte al rifiuto, alle chiusure, ai ripiegamenti e ai distanziamenti. Un inesauribile dono disponibile ed eccedente di creatività trasformatrice, generativo di meraviglia e ammirazione, perché la sua scaturigine è la gratuità. Dono di agape, forza dall’alto che solleva e dell’altro che si fa compagno di viaggio: amicizia irruente e benefica, consolatrice e ardente, umile e saggia. In breve: ‘proprio metà della vita’.
Benedizione: berakah in ebraico. La seconda lettera dell’alfabeto beth, con cui inizia la parola, è affasciante nella sua forma: ב. Un quadrato aperto sul lato sinistro, come una casa con la porta spalancata. E ‘casa‘ è proprio il primo senso della parola beth; cosicché essa esprime pure l’interno, il sé, l’intimità, l’autonomia, la famiglia, il popolo, la tribù, la matrice, lo spazio che ospita la luce. Ma al contempo la beth è pure ‘memoria dell’esilio b-abilonese’ con il suo significato ancipite: che ci ricorda bensì l’importanza del passato, di ciò che sta sopra e sotto di noi, ma soprattutto la necessità di guardare in avanti, vivendo giorno per giorno il presente, protesi verso l’ulteriorità di una benedizione che il futuro ancora dischiude per noi.
Se l’amicizia è metà della vita, la terza lettera dell’alfabeto ebraico, ghimel ג , è la metà della beth. Esse si fanno compagnia per istruirci: se la beth esprime dualità, differenziazione, riferimento all’altro, ma anche incompatibilità, la ghimel rappresenta la crescita spirituale verso la sua pienezza, l’armonia interiore, la capacità di neutralizzare forze contrastanti ed oppositive convergendo verso l’unità. Si spiega così il racconto di un midrash rabbinico, in cui ci si chiede: “Perché la Beth guarda la Ghimel e la Ghimel dà le spalle alla Beth? Perché Beth – si risponde – rappresenta la Bayt (casa) aperta a tutti. La Ghimel rappresenta il Ghever (uomo), che vede una persona bisognosa sull’uscio e si volge verso di essa per porgerle cibo”. (Otiot Rabbi Akiva). Un’immagine quest’ultima che richiama un altro insegnamento rabbinico secondo cui: “tre doni sono stati dati all’uomo come benedizione, come sementi da far fruttificare: l’essere clementi, fare spazio ritirandosi e agire con benevolenza” (Bamidbar Rabbà 8:4). Per questo il salmista chiama “beato” chi trova nell’amicizia la sua forza e decide nel suo cuore questo viaggio (Sal. 84), aggiungendo che costui, “passando per la valle del pianto la cambia in una sorgente, anche la prima pioggia l’ammanta di benedizioni”. Benedire non può essere infatti disgiunto da ricreare, consolare, farsi carico, come l’amicizia con l’altra metà della vita.
Si narra che per lunghi anni Abramo dimorò in Bersabea. Lui, il benedetto, nel quale sarebbero stati benedetti tutti i popoli della terra passò la sua vita in benedizione per gli altri. Qui egli piantò un bosco, con quattro ingressi rivolti ai quattro punti cardinali – per dire la pienezza della sua ospitalità – e all’interno vi collocò una vigna. Ogni volta che giungeva un viaggiatore, costui era invitato a varcare l’ingresso che si trovava di fronte per ristorarsi nel bosco, dove beveva e mangiava a sazietà prima di rimettersi in cammino. Quattro porte sempre aperte ai viandanti aveva anche la casa di Abramo, che non dimenticava di essere stato anch’egli un errante, e non passava giorno che non ne ospitasse uno. Chi aveva fame riceveva cibo e bevande in abbondanza; chi arrivava nudo veniva vestito degli abiti che più gradiva e rifornito di oro e argento. Poi, il patriarca introduceva l’ospite alla conoscenza del Signore, che lo aveva creato e fatto venire al mondo. Dopo aver mangiato, i viaggiatori solevano ringraziare Abramo per la cortese ospitalità, ma egli replicava: “Non dovete ringraziare me! Piuttosto, Colui che mi ha benedetto ed è il vero padrone di questa casa. Ospitandomi, Egli mi ha reso ospitale perché tutti conoscessero la sua ospitalità». «Ma come potremo ringraziare il Signore, manifestarGli la nostra gratitudine?”. Al che Abramo impartiva il seguente insegnamento: “Dite dunque: Benedetto è il Signore benedetto! Benedetto Colui che concede pane e alimento a tutte le creature!”.
È il Vangelo a portare a compimento questa benedizione, sollecitando in noi – grazie all’imitatio evangelii – a prendere come misura del nostro agire quella ‘perfezione‘ e quella ‘misericordia’ che nel discorso del monte delle Beatitudini – rispettivamente in Matteo e in Luca – Gesù indica essere proprie di Dio: “Siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Voi, dunque, siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro celeste”. (Mt 5,45-48; Lc 6,36).
Nelle sue Catechesi sullo Spirito santo, Cirillo di Gerusalemme equipara questo dono all’acqua, che scende dal cielo e non vi ritorna senza aver irrigato e fecondato la terra. Così è l’operosità di questa benedizione discendente fin dentro le viscere della terra. Essa non genera uniformità, al pari dell’acqua che, pur essendo ‘una’ nella sua natura, fa sì che ogni realtà cresca e si sviluppi nella propria singolare diversità, generando armonia di prossimità e di vicinato.
“Scende sempre allo stesso modo e forma, ma produce effetti multiformi. Altro è l’effetto prodotto nella palma, altro nella vite e così in tutte le cose, pur essendo sempre di un’unica natura e non potendo essere diversa da sé stessa. La pioggia infatti non discende diversa, non cambia sé stessa, ma si adatta alle esigenze degli esseri che la ricevono e diventa per ognuno di essi quel dono provvidenziale di cui abbisognano. Allo stesso modo anche lo Spirito Santo, pur essendo unico e di una sola forma e indivisibile, distribuisce ad ognuno la grazia come vuole. E come un albero inaridito, ricevendo l’acqua, torna a germogliare, così l’animo ferito e umiliato dal male è abitato da questa benedizione viene consolato fino a portare grappoli di consolazione e di giustizia per gli altri”.
Ma l’acqua che irriga il mondo ha bisogno del suo tempo per produrre effetto. Lo ricorda un proverbio Bantu secondo cui “Nella fretta non c’è benedizione”. E così pure – aggiungo io – nella fretta, non c’è amicizia.
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Andrea Zerbini
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