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Nel pozzo dell’esilio ‒ immagine dell’esperienza della fede, della preghiera e della stessa esistenza quando pratica l’alterità ‒ si scopre un vuoto, e in esso il conservarsi di un legame. L’alleanza tra distanti è pervasa infatti da una presenza, un germe di prossimità tale per cui, come direbbe Alessandro Baricco [Qui] «non si è mai lontani abbastanza per ritrovarsi».

Nel fondo del pozzo dell’esilio ‒ figura dell’andare alla deriva, abbandonati all’inconsistenza del nulla, ferita mortale della libertà e della preghiera che continuano tuttavia ad affidarsi e a salire, sprofondando nel silenzio sordo di una voce senza voce, di mani senza mani ‒ proprio lì, in quel luogo non luogo, sarà dato scoprire che «l’altro non è te, ma è con te».

Una nostalgia reciproca tesse i luoghi del ritorno, di un nuovo incontro. Un bisogno l’uno dell’altro, pur senza saperlo, li attrae: «Venivano dai più lontani estremi della vita, questo è stupefacente, da pensare che mai si sarebbero sfiorati se non attraversando da capo a piedi l’universo, e invece neanche si erano dovuti cercare, questo è incredibile, e tutto il difficile è stato riconoscersi, riconoscersi, una cosa di un attimo, il primo sguardo è già lo sapevano, questo è il meraviglioso. Questo continuerebbero a raccontare, per sempre, nelle terre di Carewall, perché nessuno possa dimenticare che non si è mai lontani abbastanza per trovarsi, mai – lontani abbastanza – per trovarsi – lo erano quei due, lontani più di chiunque altro», (A. Baricco, Oceano mare, Milano 1996, 118). «Forse il mondo è una ferita che qualcuno sta ricucendo», una benedizione che accade se non si rinuncia alla propria prodigalità gratuita.

«L’altro non è te, ma è con te».

Questa espressione, di André Neher [Qui], è riportata ne Il pozzo dell’esilio (Genova 1990, 132) e ben si presta come chiave di lettura per comprendere un poco il percorso letterario, spirituale e mistico del Gran rabbino Loeb di Praga, Yehuda ben Betzalel Liwa (1512-1609) [Qui] designato, nella tradizione letteraria ebraica, con la sigla “Maharal”. Con questo libro Neher ha inteso riscoprirne la figura, lo stile di un rabbi amante dei racconti e delle storie, assertore dell’autonomia dell’uomo, della dualità dialogale tra il Creatore e l’universo, tra l’uomo e Dio, sostenitore di un messianismo umanistico e di mediazione, di un’apertura dialogante con il mondo. Ma più di ogni altro, un rabbi che lottava per sottrare «lo studio del Talmud alle insidie del cervello e impiantarlo nei cuori».

Proprio perché “l’altro non è te ma con te” non deve spaventare quel vuoto; bisogna rispettare quello spazio necessario di distanziamento, asimmetrico, di lontananza, apparentemente desolante e di desolato abbandono; quel inter-mezzo tra te e l’altro, mancante di parola, ma al tempo stesso spazio di silenzio per dare e prendere la parola, spazio libero e di libertà per entrare in comunicazione e poter avvicinarsi un po’ di più.

Intervallo pure che rende possibile dialogare e legarsi; una contiguità che non è identificazione, né prossimità o faccia-a-faccia che si annullano l’uno nell’altro, ma è generativo di sguardi sempre più vicini, di mani che si toccano e si lasciano cercando, provando e riprovando comunione.

Questo medium è per il Maharal possibilità di autentica comunicazione, condizione di alleanza: «Questo spazio vuoto illustra l’essenza del Patto, perché ne simboleggia l’atto, cioè la realizzazione in corso del Patto, la comunicazione nel momento stesso in cui essa si stabilisce. Senza questo elemento intermedio, il Patto non sussisterebbe, la comunione fra l’uomo e Dio sarebbe illusoria… Il paradosso della religione biblica è che essa afferma simultaneamente che vi è un legame fra Dio e l’uomo e che, tuttavia, Dio è separato dall’uomo e l’uomo da Dio, che Dio vuole unirsi al mondo che ha creato, accompagnarlo nella sua avventura, e che resta, tuttavia, al di fuori di quest’avventura; che l’uomo desidera l’unione con Dio, e che, tuttavia, è libero di costruire un universo a modo suo. Quanto con l’immanenza, la trascendenza è inconciliabile col Patto. Perché Patto vi sia, bisogna dunque che siano continuamente verificate queste due proposizioni che sono complementari benché contradittorie: l’uomo ha bisogno di Dio, Dio ha bisogno dell’uomo. Dio non è l’Onnipotente, come suggerisce una terminologia superficiale e volgare, ma l’Essere che accetta di limitare il suo Potere, e che, in questa coscienza limitativa, vuol essere designato appunto con il Nome di Shadday, che viene tradotto, con leggerezza, con Onnipotente. Shadday è, invece, Dio che dice al suo Potere: fin qui, non oltre, poiché al di là, c’è il campo di un altro, il campo dell’uomo» (ivi, 45; 137).

Diagonale, tracciante lo spazio vuoto, come a congiungere i vertici di due angoli non adiacenti, che li divide in due parti; interfaccia pure che permette l’attraversamento dall’uno all’altro polo collegando la trascendenza all’immanenza, l’orizzontale al verticale; questa distanza e separazione inscritta nell’espressione “l’altro non è te ma è con te è” risulta così essere valicata da un ponte invisibile agli occhi: «Il ponte del Patto fra Dio e l’uomo; un ponte sul vuoto, lo scavalcamento di un abisso, nel timore e nel tremore» (ivi, 135).

Nell’orizzonte di questa duplice polarità, ricorrendo a midrashim (narrazioni) del Talmud, il Gran rabbino di Praga ricorda così che la preghiera non è il privilegio dell’uomo, perché anche Dio prega. Egli restituisce al termine tefillah, che designa la preghiera in ebraico, il senso etimologico di “pensiero-in-progetto”: «Pregare, infatti, essere mitpallel, significa giudicare; giudicare, significa pensare. Ma ciò che distingue il pensiero-masashavah (puro pensiero, invenzione), dal pensiero-tefillah (preghiera), è che quest’ultimo è tutto in volere, in tensione. E il progetto per eccellenza, perché cessa di essere appena ha raggiunto uno scopo», (ivi, 147).

La preghiera cerca Dio fuori dagli schemi delle nostre aspettative. È pratica dell’attesa attiva; abita la separazione, la lontananza perché Egli non può essere contenuto nel pensiero, ma incontrato nella preghiera. Che ha la forza di liberare Dio nascosto nella separatezza della sua inacessibilità (non è te), per farlo entrare nella vita umana (con te).

Ma anche Lui al contempo prega; anche Lui vive un’attesa attiva, orante, in tensione verso l’altro da sé, in cammino verso l’uomo: «L’uomo-che-prega è dunque l’uomo teso, l’uomo che si mette in cammino, l’uomo che si proietta dal basso in alto. E l’uomo nostalgico, pungolato da un desiderio inestinguibile, assillato da un bisogno lancinante… Pregare, per l’uomo, significa indossare l’abito dell’umiltà».

Il Talled ‒ lo scialle di preghiera del pio ebreo ‒ simboleggia, non solo l’insieme di tutti i precetti, ma la lode di tutta la creazione di cui si riveste. Le mani tese nel vuoto dell’universo sono la sua forza: «la preghiera di Dio è anch’essa volontà pura, tensione, desiderio, progetto. Con tutte le sue forze, – dice il Maharal – con tutte le sue forze tese, Dio vuole il Bene, ma non può che volerlo».

Per questo, nel midrash ricordato dal Maharal, anche Dio si riveste dei Tefillin, indossa il Talled, si riveste dell’umiltà della creazione e prega. Perché la creazione non dice solo la separazione, l’alterità di Dio, la sua distanza da noi, ma il rivestirsi di essa significa diventarne responsabile, assumere l’esistenza e dunque testimoniarne il valore, l’autonomia e la libertà dell’uomo in essa.

In tale orizzonte appare in una luce nuova il rapporto dell’uomo con Dio. Da disgiuntivo diviene unitivo; da incomunicabile si rivela come una benedizione. Colui che benedice, sorgente inesauribile di benedizione – sia egli benedetto – è a sua volta benedetto dall’uomo, pure lui desideroso di questo dono, perché in ogni benedizione si nasconde l’amore dell’altro.

Non ho trovato il midrash della citazione in nota al testo di Neher, ma fin dai primi anni in parrocchia avevo letto una sua riscrittura nella prima edizione del libro di Aldo Sonnino, Racconti Chassidici dei nostri tempi. La funzione eterna della parabola, (Assisi/ Roma 1978, 21-22), che ho narrato spesso ai ragazzi della parrocchia e ai campi scuola in montagna. E ogni volta mi ha sempre illuminato il cuore.

«Il molto lodato Rabbi Jaakob, così raccontò ai suoi allievi una notte, del mese di Nissan (era una notte col cielo carico di stelle. E la luce delle stelle illuminava il cuore di Rabbi Jaakob) “Voglio raccontarvi ‒ disse ‒ una cosa che per secoli è rimasta nascosta alla mente degli uomini.
Voi sapete ‒
proseguì ‒ che ogni ebreo, dopo la sua preghiera rivolta a Dio, alle prime luci dell’alba, ripiega il suo tallet e lo ripone nella custodia.
Voi pensate che il tallet rimanga là, fino all’alba successiva, ma non è così.
Nel pieno della notte quattro Angeli sono inviati, da Dio, verso i quattro angoli della terra”.
Cosa vengono a fare?” – timidamente chiesero gli allievi.
“I quattro Angeli vengono a prendere tutti i talledot che si trovano sulla terra, li riuniscono formando uno solo, ampio, gigantesco tallet e lo consegnano al Santo dei Santi”.
“E che fa il Santo dei Santi di questo ampio gigantesco tallet?”.

Rispose il Rabbi:
“Con esso, il Santo dei Santi, si ammanta e prega”.
“E cosa dice nella sua preghiera il Santo dei Santi?”.
“Ecco cosa dice: Ringrazio te, uomo della Terra, per le sofferenze che di continuo sopporti, e per l’opera che quotidianamente compi”.
“Poi soggiunse: Aiutami, uomo a scendere presto sulla Terra“.

Vi è una brevissima preghiera che dico rivestendo il talled del salterio, che rumino durante il giorno interiormente anche quando ho chiuso il libro d’ore. È quella ricordata nei salmi 22, 20; 35, 22; 38, 22; 71, 12; invocazione nella lontananza di qualcuno e anche di Dio, quella delle braccia distese ma ancora vuote: “non stare lontano”.

Così, come ho iniziato, termino con un testo di Oceano mare. Qui Baricco descrive la figura di un prete e della sua passione, quella di scrivere preghiere come poesie: «profumo d’attesa». Padre Pluche, uomo di Dio che spegne i dubbi della quotidianità in una fede grande come il mare, è un personaggio non solo divertente, ma umanissimo; un credente ed un uomo che, pur nelle difficoltà, si fa carico degli instabili e faticosi equilibri nelle relazioni con le persone che incontra e che chiedono il suo aiuto. Di nascosto egli scrive preghiere su preghiere, libri interi di preghiere che rivelano un colloquio con Dio vivissimo e vitale, fiducioso fino in fondo, nel transitare attraverso quel ponte sospeso sul vuoto che è la preghiera foriera di un legame di amicizia.

Pure lui porta i suoi dubbi, l’incertezza dei cammini da intraprendere, cercando come a tentoni, una luce nel buio. Così nella preghiera espone a Dio il suo problema: «il problema è questo, che ho tante strade intorno e nessuna dentro, anzi a voler essere precisi, nessuna dentro e quattro intorno». Descrive poi le quattro possibilità che gli stanno davanti e l’ultima non esclude neppure di piantare tutto, di togliersi l’abito nero e triste, e vivere come un cristiano qualsiasi.

E prosegue: «Come vedete non è che io non abbia le idee chiare, le ho chiarissime ma solo fino a un certo punto della questione. So perfettamente qual è la domanda. È la risposta che mi manca. Corre, questa carrozza, e io non so dove. Penso alla risposta, e nella mia mente diventa buio.

Così/ questo buio/ io lo prendo/ e lo metto/ nelle vostre mani./ E vi chiedo/ Signore Buon Dio/ di tenerlo con voi/ un’ora soltanto/ tenervelo in mano/ quel tanto che basta/ per scioglierne il nero/ per sciogliere il male/ che fa nella testa/ quel buio/ e nel cuore/ quel nero,/ vorreste?/ Potreste/ anche solo/ chinarvi/ guardarlo/ sorriderne/ aprirlo/ rubargli/ una luce/ e lasciarlo cadere/ che tanto/ a trovarlo/ ci penso poi io/ a vedere/ dov’è./ Una cosa da nulla/ per voi,/ così grande/ per me./ Mi ascoltate/ Signore Buon Dio?/ Non è chiedervi tanto/ chiedervi se./ Non è offesa/ sperare che voi./ Non è sciocco/ illudersi di./

È poi solo una preghiera,/ che è un modo di scrivere/ il profumo dell’attesa./ Scrivete voi,/ dove volete,/ il sentiero/ che ho perduto./ Basta un segno,/ un graffio/leggero/ sul vetro/ di questi occhi/ che guardano senza vedere./ Scrivete/ sul mondo/ una sola parola/ scritta per me/… E scivoli via/ questa preghiera/ con la forza delle parole/ oltre la gabbia del mondo/ fino a chissà dove./ Amen.

Voi mi avete preso/ da una strada qualunque/ e paziente/ mi avete portato/ in quest’ora/ che aveva bisogno di me./ Ed io/ che ero perduto/ in quest’ora/ mi sono/ trovato./ É pazzesco pensare/ che stavate ad ascoltare/ quel giorno/ davvero ad ascoltare/ me. Uno prega/ per non rimanere solo/ uno prega/ per tradire l’attesa,/ mica si sogna che/ Dio/ a Dio/ gli piaccia sentire./ Non è pazzesco?/ Mi avete sentito./ Mi avete salvato/ mi terrò/ questo abito nero/ abito triste/ e queste colline/ liete colline negli occhi/ e addosso./ In saecula saeculorum/ questo è il mio posto./ È tutto/ più semplice adesso./ Adesso/ semplice/ è/ tutto./ Quel che resta da fare/ saprò farlo da me./ Se serve qualcosa,/ Pluche,/ che vi deve la vita,/ sapete dov’è./ E scivoli via/ questa preghiera/ con la forza delle parole/ oltre la gabbia del mondo/ fino a chissà dove/ Amen.» (ivi,133s+)).

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.


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