PRESTO DI MATTINA
La vita “a piedi scalzi” di padre Marcello
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La notizia arriva proprio a ridosso del 13 luglio 1984, ricorrenza annuale della morte di padre Marcello dell’Immacolata, che coincide peraltro con l’inizio del triduo in onore della Beata Vergine del monte Carmelo: il 25 settembre prossimo ci sarà la chiusura della fase diocesana del processo di canonizzazione di padre Marcello, carmelitano della chiesa di san Girolamo in cui è sepolto. È amico silente ancora in ascolto delle tante voci narranti i nodi della vita, i groppi alla gola, i pesi del cuore.
Anche ora che il convento e la chiesa sono chiusi per lavori (ma a fine ottobre sarà riaperta), mi fermo all’esterno del muro che confina con la sua tomba per raccogliermi in preghiera. Tocco con la mano le pietre, ora qua ora là, come se toccassi il lembo del suo scapolare o il mantello bianco per dare una «svolta del respiro» (Paul Celan), inspirando un poco del suo spirito ‒ quella sua umanissima spiritualità ‒ col desiderio di restituirlo ed espirarlo poi nella quotidianità del vivere.
La spiritualità è un soffio raggiante e irradiante, un fiato trattenuto dentro, come la luce nel cristallo, prima di uscir fuori di nuovo, senza lasciarsi imprigionare dai margini e dalle forme. È pure come una “svolta” tra la fine di una frase e quella successiva; travalica i bordi di una pagina, passando ad un’altra. È pausa di respiro nell’andare a capo a fine riga; pausa di un silenzio che trasforma e risana, che fa grazia e permette un altro respiro, un respiro dopo un altro, un altro passo ancora.
Nessun tempo e spazio possano fermarne il ritmo, così è la vita secondo lo spirito. Esperienza di apertura al mondo, che ricrea le parole interiori attingendo alla realtà dell’Altro, degli altri, delle cose e degli eventi. Solo allora la spiritualità è generativa e riparatrice, ospitale e perdonante: è proprio come la preghiera e la poesia, sempre risorgente e spirante, come a pasqua essa è più forte della morte.
Prima di riprendere la bici e ripartire da san Girolamo, nascondo simbolicamente tra le pietre dei foglietti di “fiato” come fece a Gerusalemme, al muro del pianto, Giovanni Paolo II. Alito non solo i miei respiri, ma pure quelli dei fratelli e delle sorelle, sospiri che raccolgo ogni giorno strada facendo. E così, in quella compagnia silenziosa con padre Marcello, d’improvviso da dentro a fuori, la sua parola risorta attraversa quel muro che sembrava impenetrabile, massiccio e muto e fessurando la pietra sussurra sorridendo: «Avanti! Andate avanti, dillo a tutti quelli che incontrerai per via. Ricorda poi: ‘l’obbedienza fa miracoli, scioglie i nodi’».
Scioglie i nodi sì perché obbedire è contrazione della liberà in ragione della libertà stessa come amore, quella che decide di fare spazio, di aprire uno slargo e fare credito alla parola e all’esistenza dell’altro. Essa germina dall’ob-audire, ovvero dall’ascoltare paziente che si fonda sulla fiducia. L’obbedienza della fede, di cui parla anche il Concilio Vaticano II, è un ascoltare che prende sempre più la forma del credere all’affidabile Parola dell’Altro, e ad essa, quando si crede nel profondo, ci si abbandona tutt’interi e liberamente, con mente e cuore (Dei Verbum, 4).
Vita Carmelitana, vita “scalzata” quella di padre Macello. L’ordine carmelitano deriva dalla riforma scalza introdotta nel 1562 nel monastero femminile di San Giuseppe d’Ávila da santa Teresa di Gesù [Qui], nel quale si voleva nuovamente rivivere la forma apostolica delle comunità cristiana, contemplativa e missionaria. Una riforma poi estesa al ramo maschile dell’ordine carmelitano [Qui] ad opera di san Giovanni della Croce [Qui] nel 1568.
Scalzati per distinguersi dai calzati, che non accettarono la riforma e reagirono in modo turbolento. Scalzati come Mosè al Roveto ardente (Es 3,1-10); simbolo dell’alterità accogliente ed ospitale, inviolabile della dignità e santità altrui, a cui si può accedere solo togliendosi i sandali nella forma della donazione e non del possesso. Restare scalzi di fronte all’altro dice la relazione di intimità, il legame di amicizia l’unione amante nella differenza capace di compiere la diversità dell’altro salvaguardandola. Di più. Il Roveto ardente lascia uscire un flebile fiato, un flatus vocis, che promette di ribaltare le sorti della soffocante situazione di schiavitù in cui si trovava Israele sotto il dominio del dio Faraone. Ancora una “svolta del respiro” per il popolo senza più fiato; un divino respiro che, dirigendosi verso l’altro, si fa umano umanizzando, una condivisione nel patire che muta il destino.
Mosè parlava con Dio faccia a faccia; lui che era balbuziente, bocca a bocca con Dio (Es 4,10; Num 12, 8). Soffi cospiranti, verso una beatitudine promessa per chi decide nel suo cuore il santo viaggio: «Beato chi trova in te la sua forza avendo le tue vie nel suo cuore. Passando per la valle del pianto la cambia in una sorgente» (Sal 83).
Un uscire senza ritorno è la vita nello spirito, verso un dove che non si sa e a cui ci si affida e così si è afferrati e spinti in avanti, disposti a non cedere, continuando ad aver fede nel proprio desiderio, che è un desiderio di vita promessa, perché fedele è colui che ha promesso; un uscire non senza rimpianti, litigi e batticuori; ma avanti, sempre avanti e ancora avanti.
Fu questa anche la spirituale umanità di padre Marcello, un incessante esodo verso l’altro, un fidarsi restando accanto, accompagnando, insieme salendo al monte che è Cristo, per trovare e ricevere la sua dolce amicizia.
Mi raccontava nonna Iris che una volta con la sua nipotina passò per san Girolamo. Era d’inverno e c’era la neve. Al vedere i piedi rossi dal freddo di padre Marcello la piccola lo guardò e gli chiese perché non si mettesse le calze, che starebbe stato più caldo certamente e la risposta fu: «mi metterò le calze quando tu ti metterai un sacchetto sul naso perché vedo che anche il tuo naso è tutto rosso dal freddo». Si misero a ridere tutti e tre.
Ma quale semplicità in parabola per far capire che, al pari del volto scoperto ‒ epifania di umanità, immediatezza di presenza all’altro, invito al dialogo di un volto che parla già prima di aprire bocca, soglia di incontro, principio di riconoscimento nella reciprocità degli sguardi che si mostra in dignitosa nudità e in povertà bella ‒ così i piedi scalzi erano pure epifania della vita interiore, il rendersi visibile di come tutta la persona dentro e fuori stia e viva alla presenza del roveto ardente, in ascolto di una parola che ti fa partire come Mosè per riscattare dalla schiavitù i fratelli, per servire e prenderti cura delle ferite di umanità, nella forma di una intercessione e donazione, di un accompagnamento e condivisione.
Il primo giuramento delle monache e monaci buddisti è: «Giuro di soccorrere il maggior numero possibile di persone ed esseri viventi oppressi dalla sofferenza». E così ripenso a padre Marcello dell’Immacolata che fu anche padre Marcello dei ferraresi. Il genitivo specifica la modalità di presenza; non circoscrive uno spazio, ma il modo di abitarlo. Il genitivo è allora generativo di un ambito, di un particolare modo di esercitare il proprio modo di stare nella vita e di ciò che si vuole fare della propria vita. Penso allora al suo ministero nell’ospedale, in cui si curava la talassemia, di fronte a San Girolamo, all’insegnamento nella scuola poi e al confessionale.
“Dell’Immacolata” specifica la condizione di integrità, di innocenza annunciata da Dio nella Genesi, dopo la rovinosa caduta dei primogenitori. Innocenza che non è andata perduta ma preservata in una donna, quale segno posto da un Dio che non ha chiuso con l’umanità, ma intende percorrere un’altra strada per rigiocare la sua alleanza in un modo nuovo: la via di una reale incarnazione in umanità del Figlio amato, l’Innocente Agnello che sconfiggerà alla radice, facendosene carico, l’empietà sanguinaria che abita il mondo.
Dell’Immacolata specifica così un’integrità germinale che permetterà un nuovo inizio, il dono di una nuova innocenza. Ma non è stata singolarmente questa la condizione di padre Marcello, la sua vocazione a servizio di Nostra Signora del monte Carmelo? Egli infatti nel sacramento della riconciliazione, attingendo alla sorgente della grazia perdonante, riapriva sempre la strada dell’innocenza, restituiva l’integrità della vita battesimale, come levatrice accompagnava la rinascita nel Cristo, affinché coloro che lo avevano incontrato potessero riprendere la via e la vita buona del Vangelo.
Vita carmelitana è una «umanità contemplativa». Anche qui il genitivo “del monte Carmelo” specifica il modo d’essere di questa vita, una pienezza promessa a questa via: «il deserto diventerà un Carmelo e il Carmelo diventerà una foresta. Il diritto dimorerà nel deserto e la giustizia abiterà nel Carmelo», (Is 32,15-20). In Isaia (35 1-2) ritorna la stessa immagine per descrivere la gloria della Gerusalemme ritrovata, così bella che diventa quasi un riflesso della gloria di Dio: «Si rallegrino la steppa e la terra arida e fiorisca il deserto di gioia. Come fiore di narciso fiorisca, canti di gioia ed esulti: le è data la gloria del Libano, lo splendore del Carmelo e di Sharon. Essi vedranno la gloria del Signore, lo splendore del nostro Dio».
«Umanità contemplativa» a immagine della umanità nuova del Figlio, che patì e pianse nell’orto degli ulivi; morì trafitto sul monte, appeso ad una croce e in un giardino il suo spirito e il suo corpo furono liberati dalla morte.
In quello stesso giardino occhi di donne lo contemplarono e amarono gioiosamente risorto; e per l’intreccio e la complicità amorosa di quegli sguardi si generò l’invio missionario, nacque l’annuncio della buona notizia ai fratelli e alle sorelle, quella di un vangelo per l’umanità.
«Ardo di zelo per la causa di Dio» che è l’umanità dice il motto carmelitano. Lo stesso del profeta Elia che dovette imparare, ridiscendendo dal monte sul quale aveva visto Dio solo di spalle, a contemplare il suo volto, faccia a faccia questa volta, praticando l’umanità dei poveri di Jahvé, degli orfani e delle vedove, abitando fra di loro come accadde a Zarepta di Sindone. Così padre Marcello contemplò il volto soffrente dell’uomo della croce nascosto nei volti dei sofferenti che incontrava.
«Umanità contemplativa» per dire la vita carmelitana è figura che ho imparato leggendo il discorso tenuto da Rowan Douglas Williams vescovo anglicano, teologo e poeta, al Sinodo dei vescovi della Chiesa cattolica nel 2012 sul tema della Nuova evangelizzazione. «Essere pienamene umani significa essere creati nuovamente a immagine dell’umanità di Cristo; e quell’umanità rappresenta la perfetta “traduzione” umana del rapporto dell’eterno Figlio con l’eterno Padre, un rapporto di donazione di sé nell’amore e nell’adorazione, una reciproca effusione di vita. In tal modo, l’umanità in cui cresciamo nello Spirito, l’umanità che cerchiamo di condividere con il mondo come frutto dell’opera redentrice di Cristo, è un’umanità contemplativa».
Con sorpresa ho poi scoperto, continuando nella lettura dell’intervento del vescovo anglicano Rowan, che tale espressione egli l’aveva imparata da un santa carmelitana, filosofa e mistica e martire di origine ebraica, vittima della Shoah: Edith Stein, Teresa Benedetta della Croce [Qui], (Breslavia, 12 ottobre 1891 – Auschwitz, 9 agosto 1942).
Così egli ne esplicita il pensiero: «Santa Edith Stein ha osservato che iniziamo a comprendere la teologia quando vediamo Dio come “Primo Teologo”, il primo a parlarci della realtà della vita divina, poiché “tutto ciò che si dice su Dio presuppone che Dio abbia parlato”; in modo analogo possiamo dire che iniziamo a comprendere la contemplazione quando vediamo Dio come il primo contemplativo, l’eterno paradigma di quell’attenzione generosa verso l’altro che porta non la morte ma la vita. Tutto il contemplare da parte di Dio presuppone la propria assorta e gioiosa conoscenza di sé di Dio e la contemplazione di sé nella vita trinitaria».
E continua: «Essere contemplativi come lo è Cristo significa essere aperti a tutta la pienezza che il Padre vuole effondere nei nostri cuori. Con le nostre menti rese silenziose e pronte a ricevere, con le fantasie che noi stessi abbiamo generato su Dio e su noi stessi ridotte al silenzio, abbiamo finalmente raggiunto il punto in cui possiamo cominciare a crescere. E il viso che dobbiamo mostrare al nostro mondo è il viso di un’umanità in incessante crescita verso l’amore, un’umanità così incantata e impegnata dalla gloria di ciò a cui tende, che siamo pronti a intraprendere un viaggio senza fine per trovare la via che ci conduce più profondamente nel cuore della vita trinitaria. San Paolo dice (2 Cor 3, 18) come “a viso scoperto, (a piedi scalzi, p. Marcello) riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore”, siamo trasfigurati da una luce sempre più forte. Questo è il volto che cerchiamo di mostrare ai nostri fratelli nell’umanità. Lo cerchiamo non perché siamo alla ricerca di una qualche privata “esperienza religiosa” che ci farà sentire sicuri o santi. Lo cerchiamo perché in questo sguardo dimentico di sé, rivolto verso la luce di Dio in Cristo, noi impariamo a guardarci l’un l’altro e a guardare tutta la creazione di Dio». [Qui]
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Andrea Zerbini
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