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«Se ascoltaste oggi la sua voce! Non indurite il cuore». È un versetto del salmo 95,8: un ‘vocale’ convertito in testo nelle pagine del salterio, che ridiventa suono nella proclamazione a voce alta. Fa parte di una salmodia liturgica, del canto che, quale grande invitatorio alla preghiera, apre il culto giudaico e cristiano. Ma questo versetto rispecchia pure l’esperienza che ognuno sperimenta ogni volta che legge un libro. Dalle pagine aperte risuona infatti l’invito non già alla lettura ma all’ascolto, a seguire la voce che prende forma e si traduce in un corpo, nell’espressione di un viso. Lo sguardo di un volto che attende anche solo una risposta silenziosa. È un volto, segnato da sillabe e vocali, che viene risagomato ogni volta, di nuovo, come sequenze cinematografiche, sotto gli occhi di chi legge.

Ci si stupisce sempre come la prima volta, aprendo un libro, che basti così poco, poco più di un niente per dire e udire cose nuove. Una manciata di lettere combinate ai suoni e tenute insieme da noi, fin da piccoli, chini sul sillabario – «l’alfabeto il modello d’ogni combinatoria d’unità minime» direbbe Italo Calvino – poi seguendo la rubrica dei nomi nuovi, per imparare il mistero della vita che porti dentro e si congiunge con quella di fuori.
Sillaba dal greco syllabḗ, “prendo, riunisco insieme” suoni a lettere unite in un’unica emissione. Congiunge insieme vocali (“lettera dotata di voce”) e consonanti (che “suona con” o “suona insieme” alla vocale). E il lemma ne è come la premessa, il titolo, l’argomento, l’invitatorio che viene prima come porta d’ingresso al dire.

È il miracolo del linguaggio vocale e scritto: segni e suoni amalgamati assieme, lettere come nel gioco di dame e cavalieri che si allontanano e si lasciano, si cambiano di posto rincorrendosi dentro alla parola stessa o nella frase o nella pagina passando poi da una all’altra, da un libro a quello successivo, sino a formare in ciascuno una biblioteca interiore. Un’immagine che ritroviamo nella lettera inviata a Eliodoro da san Girolamo nella quale, riferendosi alla prematura scomparsa di Nepoziano, suo figlio spirituale, ricorda: «l’assidua lettura, e prolungate meditazioni avevano reso il suo cuore come una biblioteca di Cristo» (Lettera LX a Eliodoro).
È il linguaggio come un prodigio, simile a quello del caleidoscopio che punta l’oscurità luminosa del mistero e, ruotando, le tessere come lettere disegna figure e sensi nuovi al nostro vivere, traduce e interpreta l’esistenza, e quanto più inserisci vetri colorati quanto più nel caleidoscopio prendono forma parole nuove, frammenti di un infinito comprendere e interpretare.

Ogni volta che si apre un libro, la lettura ci pone in un’attualità di ascolto di un passato altrimenti muto, con effetti prodigiosi ricordati da un versetto del salmo 62 [61]: «Una cosa ha detto il Signore, due ne ho ascoltate». La voce non rimane infatti prigioniera dell’evento passato che l’ha suscitata una prima volta; ma attraverso la scrittura ri-parla una seconda volta anche oggi. È come se la voce diventasse testo e questo, quando è compreso, ridiventasse voce interiore, risveglio e chiamata al senso.

In una prima occasione la voce si è udita nella sua enunciazione originaria. Poi infinite volte è stata mediata e tradotta dal testo che la rende ri-udibile nel segno della scrittura. È allora anche una questione di traduzione, insieme testuale ed esistenziale, elaborata da colui – l’interprete –, che è chiamato a vivere una prossimità così intensa con l’altrui scrittura da generare un processo di assimilazione e comprensione, che lo spinge a riversare se stesso nel testo, se non a incontrare se stesso in colui che con altre lingue lo scrisse.

Così, l’abbiamo imparato per esperienza, «la lettura non è mai un monologo, ma l’incontro con un altro uomo, che nel libro ci rivela qualcosa della sua storia più profonda e al quale ci rivolgiamo in uno slancio intimo della coscienza affettiva, che può valere anche un atto d’amore. E qui forse, tra il lettore e lo scrittore, si producono lo sguardo, la coscienza, il faccia a faccia di una vera e propria relazione etica» (E. Raimondi, Un’etica del lettore, Bologna 2007, 13-14).

L’intera Bibbia può considerarsi allora come una conversazione in itinere. L’invito permanente all’ascolto, all’incontro e al dialogo: per tentare alleanze; per formare amicizie; per ricercare quel santo Graal di quell’ultima cena, che ha visto nella condivisione del pane e del calice, un comunicare nell’agire e nel patire, il simbolo reale di quell’amore così grande da spingersi a dare la vita per gli amici. Il calice della vivificante vita del Figlio dell’uomo, che sarà in grado di trovare solo chi saprà rivolgere all’altro – ecco l’istanza etica – raffigurato al cavaliere che lo custodisce, ormai malato e vecchio di millenni, la domanda giusta: «qual è il tuo dolore, la tua ferita?».
La Torah e i Vangeli, formati in diversi momenti e tempi della storia, sono ancora una narrazione in corso, che continua anche oggi a cercare e a trasformare i suoi lettori. Leggendola, infatti, la loro vita verrà ridefinita e interpretata in un modo nuovo.

Suggestiva appare dunque l’immagine del poeta e saggista inglese John Donne che scrive: «Tutta l’umanità deriva da un unico autore, e costituisce un unico volume. Quando un uomo, muore, non viene strappato via un capitolo dal libro, bensì viene tradotto in una lingua più alta; ed ogni capitolo deve essere così tradotto. Dio impiega diversi traduttori; alcuni pezzi sono tradotti dalla vecchiaia, alcuni dalla malattia, alcuni dalla guerra, alcuni dalla giustizia, ma la mano di Dio è in ciascuna traduzione, e la sua mano rilegherà di nuovo tutti i nostri sparsi fogli per quella biblioteca nella quale tutti i libri saranno aperti l’uno all’altro» (J. Rosen, Il Talmud e internet, Einaudi, 2001, 11).

Com’è umile e solenne aprire un libro. Ne nasce un’intimità che cresce a poco a poco, una familiarità che soppianta l’in-conoscenza. Lo si apre bensì con le mani, ma come in punta di piedi, sospesi, in attesa di qualcosa, di qualcuno, come si fosse a Natale, anche in pieno agosto. Girare pagina è poi un’altra, come vedere un bambino fare un passo, e poi un altro, un poco più sicuro, e poi via via più spedito e allegro, quando egli si scopre nel libro e prende confidenza, sino a che, voltando le pagine del libro, questo dischiude le pagine del lettore, come fossero “aperti l’uno nell’altro”.

Un libro può diventare così la seconda voce della propria anima. L’ho imparato leggendo un racconto chassidico in cui si narra di un vecchio libro di preghiere, del rabbino suo lettore e dei suoi nipoti: «I suoi nipoti dissero, un giorno, al Rabbi:nostro nonno e nostro maestro: il tuo libro di preghiere è vecchio, le pagine sono ingiallite, alcune di esse sono quasi illeggibili e noi abbiamo deciso di regalartene uno nuovo, in segno del nostro affetto e della devozione che abbiamo per te”. Rispose il Rabbi: “da innumerevoli anni io prego da questo libro: ogni mattina, ogni pomeriggio ed ogni sera. Esso è diventato vecchio insieme a me. Le sue pagine mi sono familiari, così come io sono divenuto familiare a loro. Esse sono una testimonianza della mia vita; esse hanno conosciuto i momenti di gioia e di serenità che il Santo dei Santi ha voluto concedermi, ed anche i momenti di dolore e di sofferenza. Le lettere di ogni riga, di ogni pagina di questo vecchio libro mi hanno aiutato a esprimere al Creatore, tutto l’amore e tutta la fiducia che io sento per Lui. Ogni lettera, ogni parola del vecchio libro, sono entrati nella mia persona. Così come la mia persona, sembra entrata in ogni sua lettera ed in ogni sua parola. Io ed il vecchio libro siamo divenuti una sola cosa. A volte, quando tutto quello che esiste intorno a me sembra crollare, quando io, con dolore, vedo il male prevalere sul bene, e l’ingiustizia prevaricare il senso della giustizia, e sento il mio corpo farsi privo di forze, in tal maniera, da non poter dar voce alle sante preghiere che in antico i Maestri composero, allora basta che io passi il mio indice sulle parole stampate del Libro, perché avvenga in me qualcosa di strano, di misterioso. A me sembra che da quelle pagine esca una voce, che non è la mia, ma che alla mia molto assomiglia. Miei cari nipoti, questo vecchio libro dalle pagine ingiallite, dopo così lungo tempo, di vita in comune, sembra aver appreso a pregare per me. Esso è insostituibile, perché rappresenta la seconda voce della mia anima”» (A. Sonnino, Racconti chassidici dei nostri tempi, Assisi/Roma 1978, 110).

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.


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