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È con sempre nuovo stupore, misto a sorpresa, che mi incammino per i sentieri della poesia scoprendovi continui incroci con quelli di Isaia e del Messia, il Servo sofferente del Signore. Meraviglia di quella poesia che non basta a se stessa, e che non smette mai di confrontarsi con la storia e le sue vicende.

È il caso, mi sembra, anche dell’itinerario tortuoso di Franco Fortini [Qui]. Dalle sue liriche traspare il dramma e la tragicità, le disillusioni, ma anche un residuo di inestinguibile speranza nell’umano.

Ad un tempo privato della fede, e rianimato, spogliato dell’avvenire, ma sempre di nuovo alla sua ricerca, in una lotta per liberare quella gioia pregustata, un momento, un guizzo della luce, ma ancora da venire.

Una “quieta letizia” che ha vinto i tiranni, come affiora nel testo Per un compagno ucciso: «Eri ogni ora dentro la quieta letizia/ Dell’uomo che ha vinto i tiranni;/ Non temevi gli inganni della nostra malizia/ Non chiedevi più niente al tuo amore… E guideremo l’amore avvenire e il canto/ Dove hai amato per noi l’ultima volta/. Lo spino apre la gemma e l’acqua apre il mattino» (Tutte le poesie, Milano 2015, Ebook, 86).

La volontà e la difficoltà di “essere nella storia” è stato il suo continuo intento, la sua pratica comunitaria, la sua militanza. In quanto anticipazione e utopia della forma poetica, la poesia per Fortini mantiene il suo valore di liberazione, anche contro la tendenza del marxismo ufficiale a considerarla reazionaria, astratta, senza concretezza storica.

Semmai, in quanto forma e funzione della realtà, essa ne dice la profezia, dischiude nell’avvenire un “principio speranza” direbbe il filosofo marxista Ernst Bloch. Nell’allegoria del «cieco nato» che tuttavia «può in sé vedere il lampo, e i «compagni coraggiosi» che si muovono fra «le sostanze reali», Fortini scrive: «Ma a ognuno le sue armi. / A voi il fuoco felice e il vino fraterno / a me la speranza acuta dentro la notte». (155).

Italo Calvino lo ricorda come «poeta della resistenza perché la sua vena di tristezza non è mai abbandono o rinuncia, la sua nostalgia di lunghissimo esilio non è mai impotente desiderio di evasione». (Poesie scelte (1938-1973), Milano 1974, 25).

Gli fa eco Luca Lenzini nell’introduzione a Tutte le poesie: «la poesia di Franco Fortini non ha mai smesso di parlare, anche quando ha discorso di rose e di magnolie, di mulini e di colorifici, volpi o rondini.

Il “tesoro antichissimo” che può apparire nella storia fatta dagli uomini, in mezzo al dolore e alla devastazione, nei travestimenti dalle forme più svariate, vi rinnova la promessa sempre inevasa, ogni volta tradita o defraudata ma mai dimenticata, che porta con sé l’idea di una felicità condivisa, restituita a una nozione fraterna e non privativa, laicissima e dotata – quel che più ci sfida e interroga – della capacità di trasformazione che è propria delle visitazioni, così incisiva in quanto sperimentata nel vissuto, nella storia collettiva ma anche personale.

I versi ne recano il ricordo affinché quella tradizione sommersa, carsica, ogni volta da riscoprire, sia ereditata da altri, e perché essi sappiano altresì che “la scuola della gioia è piena di pianto e sangue” (La gioia avvenire)», (ivi, 9-10).

Tra rabbie e speranze, dentro all’esperienza del tragico nella storia, la sua poetica tiene viva la promessa della notte. Dalla notte viene la gioia come guizzo di luce: «Quindi ancora e sempre l’unico lampo di “gioia”… concesso a chi prende la parola nei versi… Tutto è in bilico, pericolante; non c’è patria o casa sicura per il poeta, che nell’interno (nell’intérieur) sa sostare solo per guardare fuori, e oltre», (ivi, 17).

Questo porsi con lo sguardo come un esule, come il Nazareno, che «cerca le strade bianche di Galilea», non distoglie dall’amarezza del presente, sfiduciato, inaffidabile: «Non è vero che siamo in esilio./ Non è vero che torneremo in patria,/ non è vero che piangeremo di gioia/ dopo l’ultima svolta del cammino./ Non è vero che saremo perdonati».

Ma è sempre la “gioia avvenire” che ritorna, lasciando uno spiraglio nel disincanto, dopo ogni tappa verso l’utopia, mancata o riuscita che sia: «Voglio sapere e so che la unica forza/ è la gioia brevissima/ la certezza sensibile che viene dopo tutto», (ivi, 104; 284; 391).

Ecco allora, di seguito la poesia La gioia avvenire che ho sentito come un “preambola fidei: l’attesa messianica di un futuro possibile alle umane attese, radicata, insradicabile, nell’umano vivere e che sempre accompagna, fa strada insieme all’umano credere.

I preambola fidei in teologia sono quei segni indicatori del rivelarsi di Dio nella storia, assumendo come Sua la condizione umana, sicché la vita stessa viene disseminata e contaminata di attesa pervicace di futuro.

Leggo ancora nell’introduzione di Lenzini: «Un’aria di veglia e di vigilia anima gli scritti di Franco Fortini. Si incontrano spesso termini, immagini, espressioni bibliche, questo perché questi strumenti espressivi “servono ad indicare un oltre visibile soltanto attraverso il cambiamento, che può avvenire in interiore homine, ma di lì farsi plurale, persino istituire una nuova comunità. Qui – non prima, né dopo – il messaggio incrocia la novità più sovversiva e radicale del Cristianesimo», (ivi, 10).

La gioia avvenire
Potrebbe essere un fiume grandissimo
Una cavalcata di scalpiti un tumulto un furore
Una rabbia strappata uno stelo sbranato
Un urlo altissimo.
Ma anche una minuscola erba per i ritorni
Il crollo d’una pigna nella fiamma
Una mano che sfiora al passaggio
O l’indecisione fissando senza vedere.
Qualcosa comunque che non possiamo perdere
Anche se ogni altra cosa è perduta
E che perpetuamente celebreremo
Perché ogni cosa nasce da quella soltanto.
Ma prima di giungervi
Prima la miseria profonda come la lebbra
E le maledizioni imbrogliate e la vera morte.
Tu che credi dimenticare vanitoso
O mascherato di rivoluzione
La scuola della gioia è piena di pianto e sangue
Ma anche di eternità
E dalle bocche sparite dei santi
Come le siepi del marzo brillano le verità
(ivi, 119).

Senza questa scuola, anche la teologia non avrà futuro. Lo ha ricordato di recente il teologo milanese Pier Angelo Sequeri [Qui]: questa oggi appare «senza peso» sia nella comunità cristiana come nella società civile (Cfr. Vita e pensiero, 4/2021, 71).

Essa, dunque, dovrà essere nuovamente immaginata, intrecciando il sogno dei poeti, l’utopia dei resistenti e dei migranti, l’estasi dei mistici, sino a tracciare le orme di una chiesa in cammino sinodale, sognata da papa Francesco.

La teologia dovrà farsi esule tra la gente, tra le parole ‘altre’, in uscita da un certa autoreferenzialità che l’ha resa distante, riprendendo consonanza e comunanza con l’immaginazione, frequentando di nuovo gli ambiti dell’estetica e dell’affettività, le dimore esistenziali della fede nel suo voler comprendere e pensare il Logos dell’umanato Iddio.

Il venire della gioia è così come il venire impetuoso di un fiume senza sponde, fuori dagli argini, come urlo che scoppia e strappa gli steli rinsecchiti della morte; come l’ardore friabile di una brace infuocata, ma anche l’esilità di un filo d’erba, che trattiene tremolante una goccia di rugiada.

È come lo sfiorare con la mano il volto di un morente, e pure come quella debolezza del credere che sembra indecisione, titubanza incredula. Perché la fede è un affidarsi pur non avendo visto.

Insomma la “gioia avvenire” è qualcosa che non possiamo perdere, come non si perde, nonostante le doglie di un parto, la gioia del nascere, come non si perde, nonostante la morte, la bellezza del sacrificio della vita che libera gli oppressi. Nel dolore essa rinasce, sorge sempre nell’orizzonte avvenire.

Lo ha ricordato anche Gesù: «La donna, quando partorisce, è nel dolore, perché è venuta la sua ora; ma, quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo. Così anche voi, dice ai discepoli ora, siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia» (Gv 16, 22-16).

Quando Gesù dice queste parole è vicinissimo alla sua passione; sta entrando nel suo e nostro dolore, nella nostra e nella sua morte. Egli è al termine della sua notte, sta per entrare nel giorno avvenire, dove la morte con i suoi dolori partorirà la vita nuova: perché come una volta è nato a Natale, così una seconda volta Gesù è nato a Pasqua e per nascere ancora in chi gli sarà ospitale.

Dall’oscurità del sepolcro, come un grembo fecondo, verrà alla luce la vita risorta, e con essa risorgerà anche la gioia, che dà a noi una speranza di una fragilità invincibile. Hanno voluto chiudergli la bocca, a lui e a tanti altri martiri di fede e per la libertà, ma «dalle bocche sparite dei santi/ Come le siepi del marzo brillano le verità… Perché ogni cosa nasce da quella soltanto»: “la gioia avvenire”.

Come un «disperato camminatore» che chiede di «riposare il fianco sulla creta…/ dove la pietra/ non specchia il mutare del cielo»/ – così inizia la drammatica lirica Logoi Christou – allo stesso modo Franco Fortini ricerca le parole del Cristo dentro il sepolcro chiuso, nel cavo d’ombra dei tanti sepolcri chiusi della vita.

Cerca un’impronta di gioia lasciata dal suo riso d’uomo. Così i suoi occhi anelano, del Cristo, almeno il suo sorriso “svenato”, “dormente”, “gioia antica” di riso d’uomo, impronta di speranza per sempre. Gli occhi, quelli del poeta, restano resistenti a scrutare là dove essi, ancora velati, non arrivano a vederlo risorto e neppure asceso al cielo. Una «Rosa sepolta» cercano, «Ah letizia del mattino», gli occhi chiusi attendono in ascolto.

… dentro il cavo d’ombra guardate
il tempo di un solo respiro
oh adorando guardate
è il riso di Gesù dormente
nel ragno che sparisce
nel lombrico che si torce
nel serpe che striscia dal sonno.
Lui non risorto non salito al cielo,
l’amore e la memoria anche per noi
del suo sorriso svenato hanno data un’impronta.
E quell’orma è l’antica nostra gioia
e dove il viso è celato delle cose vediamo
come dorme l’amore e la memoria
e la speranza dal riso d’uomo.
(ivi 161-162).

È come un salmo laico la lirica seguente che contempla la gioia nascosta nel paesaggio: «Acque di eletto lume/ dell’isole beate che ai tramonti/ veste l’oro dei monti,/ tiepide arene e avventurati scali, l’occhio di un dio benigno/ dai dolci marmi del cielo vi scalda/ ed io esulto al pensiero/ che nella mia natura/ profondamente avvinto/ qualcosa è pur di voi, della letizia/ che in voi matura: onde bionda sull’Istmo/ splende di vigne e di miele Corinto», (ivi, 839).

Un altro salmo, 64 (65) fa eco al primo. Si narra della gioia delle creature al modo con cui Francesco nel cantico delle creature gioisce, lodando la provvidenza del suo “Altissimo Onnipotente e Bon Signore”: «Gli abitanti degli estremi confini/ stupiscono davanti ai tuoi prodigi:/ di gioia fai gridare la terra,/ le soglie dell’oriente e dell’occidente./ Tu visiti la terra e la disseti:/ la ricolmi delle sue ricchezze./ Il fiume di Dio è gonfio di acque;/ tu fai crescere il frumento per gli uomini./ Così prepari la terra:/ ne irrighi i solchi, ne spiani le zolle,/ la bagni con le piogge e benedici i suoi germogli./ Coroni l’anno con i tuoi benefici,/ al tuo passaggio stilla l’abbondanza./ Stillano i pascoli del deserto/ e le colline si cingono di esultanza./ prati si coprono di greggi,/ di frumento si ammantano le valli;/ tutto canta e grida di gioia».

La “gioia avvenire” per Gesù è quella del Regno: una gioia per tutti, soprattutto per i poveri, i sofferenti, i perduti dimenticati: «In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Che cosa vi pare? Se un uomo ha cento pecore e una di loro si smarrisce, non lascerà le novantanove sui monti e andrà a cercare quella che si è smarrita? In verità io vi dico: se riesce a trovarla, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite. Così è volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda» (Mt 18, 12-14).

SE SPERANDO

Se, sperando con te, dalle sere d’aprile verrà
La gioia delle estati fedeli
E un sole sui volti profondo;
Quando il silenzio sarà
Come una viva parola fecondo,
E un giusto dolore con radici di quercia
Stringerà i giorni; se i giorni
Persi a noi giusti torneranno liberi;
Compagni, se tutto non è finito…
(ivi, 77).

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.


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