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Istruzioni per un popolo ospitale

«Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità». Così inizia nel documento conciliare Lumen gentium il capitolo che presenta la chiesa come popolo di Dio.

Del resto, fu proprio al concilio Vaticano II che la Chiesa si è sentita nuovamente chiamata ad annunciare l’ospitalità di Dio offerta a tutti, e a porsi al servizio di questo dono per comunicarlo a tutte le genti.

Così la comunità dei credenti in Cristo, di coloro che guardano con fede a lui, ha riscoperto il suo essere un popolo messianico, nel senso di inviato agli altri popoli, affinché mediante il servizio al vangelo e ai poveri, ogni uomo e ogni donna abbiano parte a quella stessa santità ospitale di Dio manifestatasi nella storia, nell’esistenza singolare, nelle parole e nelle azioni di Gesù di Nazareth:

«Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza» (LG 8).

In forza della dignità e della libertà dei figli di Dio nel cuore dei quali dimora lo Spirito santo, istruita nella pratica del comandamento nuovo quello di amarsi in reciprocità gli uni gli altri come lo stesso Cristo ci ha amati, la chiesa è posta come segno e strumento del Regno promesso, germinazione e inizio «dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» e «pur non comprendendo effettivamente l’universalità degli uomini e apparendo talora come un piccolo gregge, costituisce tuttavia per tutta l’umanità il germe più forte di unità, di speranza e di salvezza» (LG 9).

Resi così consapevoli che ogni cambiamento comincia da se stessi «i cristiani, ricordando le parole del Signore: “in questo conosceranno tutti che siete i miei discepoli, se vi amerete gli uni gli altri” (Gv 13,35), niente possono desiderare più ardentemente che servire con maggiore generosità ed efficacia gli uomini del mondo contemporaneo. Aderendo fedelmente al Vangelo beneficiando della sua forza, sono uniti con tutti coloro che amano e praticano la giustizia», (Gaudium et spes, 93).

Nel suo libro Come Gesù voleva la sua comunità. La chiesa quale dovrebbe essere (Milano 1987), il teologo tedesco Gerhard Lohfink [Qui] è persuaso che occorra offrire un’immagine ‘altra’ delle nostre comunità cristiane, più somigliante a quelle delle origini, parrocchie comprese, per arginare la deriva dell’individualismo religioso che, nel secolo scorso, ha segnato anche la teologia e la spiritualità cristiane.

Relegando la vita di fede all’ambito privato, come una pratica non pubblica destinata al singolo, alla sua interiorità, una parte della teologia liberale ha limitato la stessa comprensione della chiesa come società sino a spiritualizzarla. Definendola come una “societas in cordibus” la rendeva invisibile, insignificante per il dissolversi dei suoi legami sociali.

Gesù desiderava invece che proprio tra la gente del suo popolo, dalla sua famiglia risplendesse la buon notizia del suo Vangelo: un popolo, una famiglia dei discepoli come sale e luce del mondo: «non si accende una lampada per metterla sotto un secchio, ma piuttosto per metterla in alto, perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa».

Da questa comunità riconciliata, da questo “piccolo gregge” doveva scaturire il fascino della libertà − “non vi chiamo più servi ma amici” − e risuonare l’annuncio della parola di riconciliazione e del dono della pace: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi».

In questi difficili passaggi d’epoca occorre pertanto recuperare il volto originario della chiesa che non si esprime solamente nel legame individuale con Dio ma si edifica attraverso rapporti interpersonali. Un intero popolo è chiamato a tessere, intrecciare la stessa socialità umana oltreché ecclesiale, a farsi servo del vangelo tra la gente.

Lo stile sinodale, che tende a realizzare un insieme di popolo in cammino attraverso relazioni di reciprocità, è chiamato a edificare la comunione praticando una prassi di solidarietà, che è poi lo stile con cui Gesù ha manifestato e reso presente la prossimità di Dio, quella che i vangeli sinottici e Gesù stesso chiamano il Regno di Dio e la sua giustizia.

Nel battesimo al Giordano, Gesù mettendosi in fila con tutta la gente, mescolandosi con i peccatori, ha voluto mostrarsi solidale con loro. Ma ancor più lo ha fatto lasciandosi abbracciare dalla croce, così da sperimentare umilmente il sofferto cammino di tutta l’umanità fin dentro la morte.

Ma è in tutta la sua esistenza terrena che egli si è fatto solidale alla condizione della gente povera, vulnerabile, sfruttata, emarginata, oppressa dalle ingiustizie, rivelando così una misteriosa ma reale solidarietà del Padre con il suo popolo, e attraverso questo, con tutti i popoli.

Così l’intenzione di Gesù − secondo Lohfink − fu quella di rivolgersi non solo alle persone ma a tutto l’Israele disperso, nel suo insieme. Egli desiderava convocare e trasformare il popolo di Dio lacerato e malato in una società riconciliata, segno di un futuro di umanità e di popoli riconciliati alla fine dei tempi.

Questo stile e prassi solidale fu così ispirazione per le comunità cristiane delle origini, di cui un testo emblematico lo troviamo nella Lettera di Paolo ai Galati (3, 28) nella quale si ricorda la reciprocità solidale tra giudei e greci, schiavi e liberi, uomini e donne che caratterizzava quella collettività:

«Tutti voi infatti siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. Se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa».

La stessa sinodalità non può allora prescindere ma dovrà esprimersi attraverso relazioni di reciprocità solidale.

«Allēlōn», le molteplici variazioni della reciprocità

«Allēlōn», l’un l’altro, nella forma plurale «allēlous», gli uni gli altri. È stato Lohfink che ha declinato attraverso questa formulazione linguistica il concetto di solidarietà come reciprocità, ricercando tutte le sue ricorrenze negli scritti del Nuovo Testamento, soprattutto in Paolo e Giovanni.

Allēlōn lo troviamo citato infatti con grande profusione: più di 90 volte, e una cinquantina di esse si presentano come la forma stessa dell’amore reciproco e del servizio di un amore vicendevole.

Pronome e avverbio di reciprocità, allēlōn passa quasi non visto − non lo si trova neppure nel Grande Lessico greco del NT. È come un seme minuto, sperduto e sparpagliato tra le grandi parole del vangelo, così simile a quel granellino di senape della parabola evangelica. Semente da cui tuttavia può nascere, crescere e ramificarsi sulla terra l’albero della santità ospitale di Gesù, e attuarsi nella chiesa una trasformazione della mentalità cristiana, della coscienza credente e delle pratiche pastorali nelle nostre comunità cristiane.

L’allēlous è pronunciato proprio da Gesù durante la lavanda dei piedi ai discepoli nell’ultima cena: un dire attraverso un fare gli uni agli altri. Come una consegna fu pure quella del comandamento nuovo: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri».

Questo pronome, “gli uni gli altri”, capace di unire le diversità, dice la forma ecclesiale per vivere la sinodalità pur nella differenza tra persone e tra chiese. È forma significativa e pregnante, sia nell’ecclesiologia paolina come in quella giovannea, tanto che il nostro autore ha scritto che con tutti i versetti contenenti questa forma linguistica si potrebbe scrivere un’ecclesiologia di comunione e − aggiungo io − sinodale, anzi ecumenica ed interreligiosa.

Poiché credere è l’attitudine a praticare l’alterità ed è per questa “buona pratica” di reciprocità nel servizio vicendevole che la fede vive come amicizia e amore e la speranza evangelica diventa contagiosa, anzi attraente per quelli che ancora non la conoscono.

La fede nel cuore è l’altro nel cuore: e proprio per essere tale − ricorda Lohfink − che è capace di far sorgere un mondo nuovo: «Quando nasce veramente dalla fede, la Chiesa ha proprio la forma del mondo: non serve ad un popolo, è un popolo. Non richiede la giustizia, ma vive la giustizia. Non lotta per la libertà, è luogo di libertà». L’ecumene è allora il nostro mondo, luogo per edificare la solidarietà evangelica, ecclesiale tra noi e con le persone.

L’allēlōn ci fa dunque comprendere che la chiesa vive della regola fondamentale dell’accoglienza ospitale di Dio, la cui origine scaturisce dalla reciprocità di amore del Padre e del Figlio, dall’amore dell’uno per l’altro, che è lo Spirito, viene noi la grazia di quella reciprocità che fa nuove tutte le cose.

Per chiedere i cieli nuovi e la terra nuova può giovare allora lo stile e la pratica di un litania, come fosse un ininterrotto koan giapponese destinato a risvegliare la natura più profonda e reale del nostro vivere ecclesiale e sociale.

Obiettivo è quella profondità dove abita la grazia da cui scaturisce la reciprocità evangelica, il luogo dove si dà l’incontro con il maestro interiore, che al discepolo mormora spirando in lui il suo Spirito: allēlōn:

condividere la fede gli uni con gli altri (Rm 1,12),
gareggiare nello stimarsi a vicenda (Rm 12,10)
avere i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri (Rm 12,16)
accogliersi gli uni gli altri (Rm 15,7)
correggersi l’un l’altro (Rm 15,14)
salutarsi gli uni gli altri con il bacio della pace (Rm 16,16)
aspettarsi gli uni gli altri (1Cor 11 ,33)
aver cura gli uni degli altri (1Cor 12,25)
essere al servizio gli uni degli altri nell’amore (Gal 5,13)
portare gli uni i pesi degli altri (Gal 6,2)
confortarsi a vicenda (1Ts 5,11)
edificarsi gli uni gli altri (1Ts 5,11)
vivere in pace gli uni con gli altri (1Ts 5,13)
cercare il bene gli uni degli altri (1Ts 5,15)
sopportarsi a vicenda (Ef 4,2)
essere benevoli e misericordiosi gli uni verso gli altri (Ef 4,32)
essere sottomessi gli uni agli altri (Ef 5,21)
perdonarsi a vicenda (Col 3,13)
confessare i peccati gli uni agli altri (Gc 5,16)
pregare gli uni per gli altri (Gc 5,16)
amarsi intensamente gli uni gli altri (1Pt 1,22)
praticare l’ospitalità gli uni verso gli altri (1 Pt 4,9)
rivestirsi di umiltà gli uni verso gli altri (1 Pt 5,5)
essere in comunione gli uni con gli altri (l Gv 1,7)
prestare attenzione gli uni agli altri (Eb 10,24),
praticare l’ospitalità in maniera vicendevole (1Pt 4,9),
rivestirsi di umiltà l’un l’altro (1Pt 5,5)
essere in comunione gli uni con gli altri (1Gv 1,7).

E da una poesia le istruzioni per abbracciarsi

L’universo non ha un centro,
ma per abbracciarsi si fa così:
ci si avvicina lentamente
eppure senza motivo apparente,
poi allargando le braccia,
si mostra il disarmo delle ali,
e infine si svanisce,
insieme,
nello spazio di carità
tra te
e l’altro

(Chandra Livia Candiani [Qui], La bambina pugile ovvero la precisione dell’amore, Einaudi, Torino 2014, 11)

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.


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