“Imbastitura in bianco è la poesia che fabbrica l’abito della pietà”
Il gesto d’imbastire mi era familiare fin da piccolo, perché da ragazza mia madre aveva studiato dalla sarta del quartiere e quell’arte gli venne buona poi per vestire noi quattro figli. Quando «facea l’imbastitura e il sopramano» (G. Pascoli) per prendere misura e accorciare giacche e pantaloni, se retava senza filo mandava me a comprare in merceria quel filo bianco più spesso e morbido degli altri, ma anche più fragile, che serve a tenere insieme le parti di un vestito ancora disunite, solo in modo temporaneo per vedere come sta, prima del cucito definitivo.
Sono debitore di quest’immagine, “imbastitura in bianco”, invisibile traccia che tuttavia tiene insieme senza assimilarle l’una all’altra in modo misterioso poesia e pietà − intreccio provvisorio anch’esso che fabbrica all’umano un abito di eternità – sono debitore, dicevo, a Giuseppe De Luca (1898-1962) [Qui] scrittore, letterato e sacerdote ai tempi di papa Giovanni e del card. Montini con il quale fu in una profonda amicizia. Lo storico Giuseppe De Rosa ne ha delineato un bel profilo ne Il Dizionario Biografico degli Italiani (Volume 38 – 1990).
Amico di Prezzolini e Papini − “i suoi confidenti più preziosi” − e dello storico francese Henri Bremond, che scrisse una storia letteraria del sentimento religioso e ispirò al De Luca l’opera della sua vita: l’Archivio italiano per la storia della pietà. Tale frequentazione, soprattutto epistolare, lo rese sempre più attento alle fonti letterarie della pietà, al carattere della pietà tra gli uomini, nonché indagatore erudito del rapporto tra poesia e preghiera declinato in chiave teologica.
Nella sua Introduzione alla storia della pietà (1951), è Lucien Febvre [Qui] lo storico che egli mostra di stimare di più, perché precisa la qualità singolare del sentimento religioso riconosciuta nell’amore, appunto la pietà: «Più che storico della sensibilité è storico dell’uomo in quel che ha di meglio». Febvre lamentava infatti la mancanza di una storia dell’amore, e aggiungeva: «pensiamoci», (Archivio…, vol. I, Roma 1962, 104). Fu così che con De Luca il “pensarci” sopra è divenuto realtà di scrittura.
Così egli scriveva nell’introduzione al primo volume: «oggi e nel presente numero non incomincia una “novella istoria”, bensì e solamente incomincia ad apparire qualche testo antico, ma nuovo. Non avevamo fatto mistero, in passato, della “dura intenzione” (Parad., XI, 91), costante in noi sin dalla nascita di queste pagine…
C’è servizio e servizio, lavoro e lavoro: qui noi si attende a edificare un capitolo della devozione mariana, quello della letteratura: letteratura teologica, liturgica, soprattutto peraltro di pietà e d’arte; dove la parola arte sta prevalentemente per poesia: delle arti figurative, per ora, nulla di nulla. Di modo che non senza una predeterminazione noi raggranellammo sin qui tanta poesia, umile, sostanziosa, bella.
La poesia ha questo di buono, quando è buona, che ci anima, ci risveglia, ci fa sentire le cose, ci fa correre, volare. Vien voglia di cantare anche noi, quando vicino a noi uno prende a cantare. La via della vita così spesso è così dura, l’intelligenza si fa talmente perplessa e oppressa in certe giornate, che a camminare cantando si cammina meglio» (ivi, IX-X).
La poesia come la pietà è in tutti
Presenza di Dio nella vita dell’uomo è la pietà, una “consuetudine di amore”, attraverso cui va formandosi l’abito stesso della vera religiosità umana. Se la poesia è imbastitura provvisoria, latente pure, in bianco, tra il tempo e l’eternità, tra la terra e il cielo, la pietà è cucitura definitiva, legatura permanente nella storia dell’uomo a Dio e di Dio con lui. La pietà di entrambi li tiene uniti, cuciti insieme dall’amore anche se non si conoscono e restano lontani.
Così ne precisa il termine De Luca: «Riceve qui il nome di pietà non la teoria sola o il solo sentimento dell’una e dell’altra religione in genere, non la sola religiosità vaga, non il solo vertice supremo ed esatto dell’unione mistica, bensì quello stato, e quello solo, della vita dell’uomo quando egli ha presente in sé, per consuetudine di amore, Iddio…
Quando l’uomo prova in sé presente Iddio, non in mero concetto o in puro sentimento ma nell’amore, noi diciamo che allora egli è pio: non presente per un attimo, o sebbene lungamente solo per una volta e quasi in un episodio staccato, bensì presente in forza di un abito interiore, continuo e continuato quantunque non ininterrottamente in atto.
Non è pietà una fiammata momentanea, per essere pietà dev’essere come la vita. Si è pii come si è vivi… Senza dubbio possibile, la pietà sta alla religione come la poesia sta alla letteratura: ne è la cima più alta, “culmen et corona virtutum” (Ep. 96, 20, tra quelle di san Girolamo: P. L., 22, col. 789). Con una differenza, tuttavia, che poeti si è in pochi, pii si può essere tutti; a meno che, e mi parrebbe ragionevole, non si confessasse che la poesia è in tutti, quand’anche pochi la possono scrivere e molti ci si provano invano». (ivi, 7-8; 25-26
Giuseppe De Luca ha così inteso togliere dall’oblio l’umana pietà sviluppandola nel senso più ampio possibile, sino a inserire nell’indagine anche quella dei non credenti. Attraverso la ricerca documentaria e storica le ha aperto un varco nelle correnti storiografiche, in cui aveva predominato l’elemento dinastico o popolare, economico, sociologico e culturale o filosofico.
Pure la chiesa, nel fare la sua storia, aveva trascurato la pietà come principio architettonico del suo fare memoria, tesoro del passato, privilegiando invece la storia delle singole chiese nazionali e locali, o dei papi e dei vescovi o dei grandi ordini. E tuttavia − annota il nostro autore − «soltanto nella storia dei Santi o agiografia (sovente, anch’essa, adoperata a scopi non d’intelligenza, ma di prestigio), se ne possono trovare elementi più copiosi, mentre, non solo nei Santi, ma anche nel più meschino fedele, nel popolo più trito, nelle plebi più rustiche, quel che v’è di più cristiano è la pietà, se e quando c’è… Nonostante l’oblio dove la si è lasciata, la pietà ci sembra tale un elemento nella vita, e dunque nella storia dell’uomo, che se non sorpassa e sovrasta, certo eguaglia tutti gli altri» (ivi, 30-31).
Non si può non affrontare allora la pietà come ermeneutica della storia, men che meno ignorarla anche se essa «appena appena, e fosse anche a malapena, riesca a essere narrazione più che si possa ultima e totale dell’uomo, e non rimanga a mezza strada racconto o descrizione o interpretazione d’uno o più uomini, di uno o più dei loro tempi, d’una o molte delle loro idee o azioni e gesta. Nell’uomo anche il meno pio o prima o dopo suona sempre l’ora e viene il momento della pietà: non c’è un uomo senza pietà, e senza che la pietà non giunga, fosse pure per un istante solo, a levarsi in lui quale bandiera ammiraglia della sua umana navigazione», (ivi, 6).
La storia della pietà è storia di quel misterioso quid «che fa dell’uomo qualcosa di unico con il suo Dio e del suo Dio qualcosa di unico con lui», così scriveva De Luca alla fine della vita all’amico Prezzolini, ricordando che l’intelligenza della storia, il suo discernimento non è dato dalle dinastie, né dal popolo, né dall’azione, né dallo spirito, né dalla provvidenza neppure dalla storia delle religioni ma dalla pietas.
Poesia: un paradiso artificiale
È il titolo di un articolo che apre il volume X dell’Archivio italiano per la Storia della pietà. Me ne sono imbattuto quasi per caso, e da qui è sortito quanto è preceduto finora.
Unico è il paradiso come unica la vita; la poesia non è la stessa cosa della vita come non è il paradiso, ma essa è un “artefatto” della vita e del paradiso: è un paradiso artificiale sì, ma non nel senso di artificioso, bensì di “fatto ad arte”, manufatto, un fare dal nulla, un venire all’esistenza.
È questo il senso etimologico di poiesis, intesa come creatività poetica, Così inizia l’articolo: «Due paradisi non si possono avere, dice il proverbio; meno che mai se ne possono avere in quantità. Fu sempre ritenuto uno, a mio credere, il paradiso vero; gli altri venivano relegati tra i sogni, le ombre, le immagini create dal desiderio, le chimere; e a essere schietti».
Nel testo poi si descrivono i vari paradisi artificiali; il quarto è la poesia: essa inerisce al pari della musica e della danza ad una specie di «incantamento, ora mosso più d’un uragano, ora calmo e quieto da quanto un plenilunio.
Anche qui, non è facile esprimersi in due parole. Chiedersi che cosa è la poesia, val quanto chiedersi che cosa è l’amore: nessuno lo seppe e nessuno lo saprà mai, fuorché per approssimazione verbale. Una storia delle definizioni della poesia non sarebbe meno sorprendente che la storia delle definizioni dell’amore. La favolosa nascita di Venere non fu così bella come è bella la nascita della poesia, che di tutte le cose umane falsamente immortali forse e la meno falsamente immortale» (ivi, 8; 14).
Anche da queste poche righe è dato allora comprendere il perché del testo latino che sta in esergo al saggio; una citazione del poeta e astrologo pagano Manilio [Qui] presa dal suo libro Astronomicon: «Chi potrebbe conoscere il paradiso se non per il dono stesso del paradiso? E per trovare Dio, chi se non è parte stessa degli dei?» (Astr. II,115-116).
Come a dire che la poesia è pur essa un paradiso, dono dell’unico paradiso, scaturente da esso e posto nelle mani dell’uomo. La poesia è così un artefatto abitato dall’immortalità, prossimo al vero, che va tessendosi nel vivere umano, anche se solo come “imbastitura in bianco”, provvisoria, in attesa di ciò che sarà definitivo. E non si perderà neppure allora, giunti a meta, la nostalgia e la dolcezza di quel filo bianco e morbido, stretto nella mano, che tiene insieme ora i nostri giorni perché fabbrichiamo giorno dopo giorno l’abito bello della nostra e Sua pietà.
Si narra nella Genesi che Dio fabbricò ad Adamo ed Eva due tuniche. Non li lasciò andare nudi senza provvedere a rivestirli della sua poesia e della sua pietà. Una provvidenza di amore che si è fatta lungo la storia compagnia, alleanza, familiarità e intimità di amore all’eccesso, fino a dare la vita: una storia di salvezza − se così si può dire − anche per Dio o meglio in Dio: «Avevo fame mi hai dato da mangiare, avevo sete è mi hai dissetato, straniero, mi hai ospitato, nudo rivestito, in carcere e malato, visitato».
Scrive ancora il De Luca: «Un paradiso è la poesia, se proprio si vuole; il più vicino al vero, ma non il vero… Per me i poeti sono i maestri, non delle verità da credere, ma delle verità con cui credere. Più di ogni altro artista, il poeta si getta vivente nel suo fuoco, e dentro vi arde senza lasciar traccia d’estraneo né scoria…
Non più paradisiaci né più infernali di noi, son compagni preziosi sulle vie della vita, perché possiedono in più di noi il dono di illuminare e consolare il cammino, raccontano le storie, descrivono le cose, vedono meglio e meno si lasciano prendere, senza dire che la loro dolce pazzia aiuta, chi vuol essere aiutato, verso la follia della croce, quella dei Santi. La quale veramente sta più su, miei cari amici; più su sta il paradiso, ed è altra cosa da tutte le cose del mondo, la poesia compresa. E una cosa tale, il paradiso vero, talmente alta, talmente, portentosa, che solamente a crederci, ma crederci per davvero, ci si è già dentro», (Poesia paradiso artificiale, Archivio…, X, 18; 19).
La cosa più bella
«Io son rimasto, forse perché miserabile prete, a credere che la cosa più bella sia ancora un boccone di pane, un bicchiere di vino, il sorriso d’un bimbo, il volto d’una ragazza innamorata, un momento di poesia o di amore, lo star vicino a un malato, il tener la mano nella mano di chi ci lascia» (Ricordi e testimonianze, Brescia 1963, 131).
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Andrea Zerbini
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