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Suo dono è la Pasqua

È nella notte che è risorto
È dalla mia notte che è risorto
Pesavo, dormivo su di lui, io sono la pietra
Dal sepolcro per sempre rotolata via

Occhi, lingue, volti
Che annunciano nei secoli
Io sono fino alla fine dei tempi
L’asse del cielo, la ruota del vento
L’albero della vita le cui radici
Fanno di tutti i corpi un corpo solo.
Basta un papavero
Spinto fuori dalla tomba
Per farmi uscire
E per celebrare
Il Risorto che mi fa dono
Di uno scorcio d’alba e fra i denti un fiore
Il dono di vivere nella gloria
Dell’eterno quotidiano

(Pierre Emmanuel, Évangéliaire, Ed. du Seuil, Paris 1961, 213; 230)

Il dono annuncia il passare da se stessi all’altro, valicando la propria solitudine. Ma dice pure il darsi e il riceversi nella gratuità dell’amore, al modo della Pasqua − “transitus Domini” − il suo passare da noi al Padre suo, dal suo amore per noi all’agape di Dio, varcando la soglia invalicabile del sepolcro, oltre l’orizzonte chiuso della nostre morti.

Suo dono a Pasqua è il vangelo quadriforme, che pure transita da una persona all’altra, da allora fino ad oggi. Sono occhi, lingue e volti che annunciano lungo tutti i secoli “il rosso e delicato papavero che ha spezzato la pietra, l’asse del cielo, la ruota del vento, l’albero della vita, il dono di uno scorcio d’alba presto di mattina”.

Insieme, appassionatamente essi, sparpagliati tra la gente, trasmettono quello che a loro volta hanno ricevuto fin dal mattino di Pasqua: un passa parola, passo dopo passo che attraversa la vita di ciascuno rendendola un testimone.

La narrazione di questa traditio degli apostoli la troviamo in una lettera di Paolo ai Corinti: «Vi faccio poi presente, fratelli, il lieto annuncio che abbiamo annunciato a voi e che voi avete ricevuto e nel quale state (saldi) e per mezzo del quale siete anche salvati. Trasmisi infatti a voi che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è stato risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa quindi ai Dodici» (1Cor 1, 1-8).

E più avanti Paolo lo afferma del dono del corpo e del suo sangue del Cristo, della sua presenza significata e attuata nella condivisione del pane e del calice, sua vita data per tutti. Da quella notte in cui veniva consegnato non ha mai più smesso di consegnarsi nel vangelo e nell’eucaristia sacramento del suo amore:

«Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso (tradidi vobis) : il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito (tradebatur), prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me. Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga”», (1Cor 11, 23-26).

Suo dono a Pasqua: la tomba aperta, la libertà dello Spirito, una creazione nuova.

A Pasqua viene generato uno spazio di libertà: la tomba vuota è così luogo sorgivo del dono dello Spirito del Risorto; scaturigine di una libertà amante, che nemmeno la morte ha potuto trattenere dal donarsi ai suoi discepoli, mostrandosi risorto e vivo in mezzo a loro.

È sempre Paolo che scrive: «Il Signore è lo Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà. E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore», (2Cor 3, 17-18). Il dono e la libertà dello Spirito rigenerano e ricreano la qualità dei legami tra Gesù e i suoi, tale da permettere il reciproco riconoscimento.

Dicono gli esegeti che nel racconto pasquale del vangelo di Marco abbiamo forse due tradizioni inizialmente distinte tra loro: la tradizione del sepolcro aperto e quella delle apparizioni/manifestazioni del risorto; apparizioni di riconoscimento e apparizioni di invio missionario.

Manifestazioni per esprimere le quali è usato il verbo ‘vedere’: fu visto o si fece vedere. Il riferimento non è però a una visione che viene da loro, ma da lui: l’iniziativa è sempre del Risorto. Così coloro che avevano conosciuto quaggiù Gesù di Nazareth, durante tutto il suo ministero, attestano che egli è proprio lo stesso, sebbene divenuto altro, e che è lui, con tutto il suo messaggio, la sua persona indimenticabile e i suoi segni, ad essere stato risvegliato dai morti.

E ancora vorrei sottolineare come la descrizione e le immagini aurorali, con cui si apre il racconto nel vangelo di Marco, fanno pensare ad una nuova creazione iniziata con la risurrezione di Gesù: «Di buon mattino, (le donne) il primo giorno dopo il sabato, vennero al sepolcro al levar del sole», (16,2).

Come pure le ultime parole ci mettono sotto gli occhi la nuova comunità dei discepoli in uscita missionaria: «Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano» (16,20). Si noti la reciprocità del dono: quasi un ospitarsi l’uno nello spazio aperto dell’altro. Il Cristo e il suo vangelo nei discepoli; i discepoli e il loro buon annuncio nel Cristo.

Si trasmette solo ciò che si vive. Così è pure del dono del vangelo. L’annuncio chiede la testimonianza della vita. Scrive Roberto Repole [Qui]:

«La testimonianza viene qui affidata ai cristiani nei quotidiani e affatto normali contatti con le persone con cui convivono nei diversi ambienti della vita. È qui ed è così che può essere reso disponibile il dono, anche nel suo debito dell’annuncio: il quale avviene solo dal di dentro di questa testimonianza.

Se ciò che si deve donare nell’annuncio è lo spazio che si è aperto in Cristo (con la Pasqua), questo non verrà “detto” se non laddove ci siano dei cristiani che si fanno essi stessi spazio ospitale per altri uomini: l’annuncio non può avvenire senza questa testimonianza; e viceversa.

Ciò che si tratta di annunciare non può essere trasmesso se non con una vita che attragga per la capacità di essere realmente ospitale nei confronti dell’altro, per una presenza che gli fa spazio e gli consente di essere, per uno spendersi per l’altro che sia un ascoltarlo profondamente, per un offrire che mostri di vivere, al pari del destinatario dell’annuncio e dunque nella sua compagnia, nel costante bisogno del dono divino per essere…

Tale ridondanza del dono risulterà reale a misura che si realizzi nella stessa forma: nella gratuità e nel disinteresse, ma anche nella speranza che il destinatario possa, nella sua libertà, corrispondere al dono offerto e nella disponibilità della Chiesa a lasciarsi trasformare dal donatario» (La chiesa e il suo dono, Brescia 2019, 343; 7).

Il dono del Figlio

Il suo dono a Pasqua è proprio lui stesso, il Figlio amato, dato per noi, consegnatoci unitamente alla sua missione di prossimità e intercessione. Suoi doni trasmessi non solo alla cerchia dei discepoli, alla sua chiesa, ma a tutti quelli che stanno transitando un valico di prossimità e intercessione verso una umanità sofferente, e così facendo divengono collaboratori di quella incorporazione misteriosa al corpo stesso del Cristo cosmico e universale.

È Gesù stesso che ricorda a Nicodemo di essere dono del Padre: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare (daret) il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,16-17).

Il verbo greco usato è didomi’, nel latinodo/datum/dare’. Il biblista Léon-Dufour [Qui]  afferma che «con questo verbo viene messo in rilievo propriamente l’aspetto di “dono”, un dono in cui si ricapitola tutta intera la missione del Figlio nel mondo. Di fatto nel versetto seguente, il verbo parallelo ‘inviare’ non allude direttamente alla sua passione, ma piuttosto a tutta l’opera del Figlio nel suo insieme. Secondo l’angolazione giovannea, e anche qui, Gesù è eminentemente il Rivelatore del Padre, è Colui la cui parola risveglia l’uomo alla comunicazione divina» (Lettura dell’evangelo secondo Giovanni. I, San Paolo, Milano 1990, 412).

Occorre infine rilevare che questo dono che è “il Figlio dato” non separa i cristiani dagli altri uomini. Basterebbe leggere la Lettera a Diogneto [Qui] per cogliere questo legame strutturale dei cristiani con l’umanità tutta; un legame che li rende membra, secondo il concilio, gli uni degli altri nel cammino spirituale di incorporazione al Cristo di tutta l’umanità [Qui].

Così nel dono del Figlio si dà il dono della testimonianza dei cristiani: Leggiamo nel documento Ad gentes 11 del Concilio:

«È necessario che la Chiesa sia presente in questi raggruppamenti umani attraverso i suoi figli, che vivono in mezzo ad essi o ad essi sono inviati. Tutti i cristiani infatti, dovunque vivano, sono tenuti a manifestare con l’esempio della loro vita e con la testimonianza della loro parola l’uomo nuovo, di cui sono stati rivestiti nel battesimo, e la forza dello Spirito Santo, da cui sono stati rinvigoriti nella cresima; sicché gli altri, vedendone le buone opere, glorifichino Dio Padre (cfr. Mt 5,16) e comprendano più pienamente il significato genuino della vita umana e l’universale legame di solidarietà degli uomini tra loro.

Ma perché essi possano dare utilmente questa testimonianza, debbono stringere rapporti di stima e di amore con questi uomini, riconoscersi come “membra” di quel gruppo umano in mezzo a cui vivono, e prender parte, attraverso il complesso delle relazioni e degli affari dell’umana esistenza, alla vita culturale e sociale.

Così debbono conoscere bene le tradizioni nazionali e religiose degli altri, lieti di scoprire e pronti a rispettare quei germi del Verbo che vi si trovano nascosti; debbono seguire attentamente la trasformazione profonda che si verifica in mezzo ai popoli, e sforzarsi perché gli uomini di oggi, troppo presi da interessi scientifici e tecnologici, non perdano il contatto con le realtà divine, ma anzi si aprano ed intensamente anelino a quella verità e carità rivelata da Dio.

Come Cristo stesso penetrò nel cuore degli uomini per portarli attraverso un contatto veramente umano alla luce divina, così i suoi discepoli, animati intimamente dallo Spirito di Cristo, debbono conoscere gli uomini in mezzo ai quali vivono ed improntare le relazioni con essi ad un dialogo sincero e comprensivo, affinché questi apprendano quali ricchezze Dio nella sua munificenza ha dato ai popoli; ed insieme devono tentare di illuminare queste ricchezze alla luce del Vangelo, di liberarle e di ricondurle sotto l’autorità di Dio salvatore».

Quel Figlio dato − Parola che dice la misura di se stesso e nostra, chi egli sia e chi siamo noi, ed il comune destino di vita-morte-vita che ci lega per sempre − proprio lui a Pasqua ci chiede di fare ancor più nostre, carne e sangue nostro, le incredibili sue parole, quelle del Padre nostro e delle Beatitudini, affinché in lui, sovrabbondanza e smisuratezza del dono, nella sua Parola ci sia dato vedere, come le donne il mattino di Pasqua, il suo volto (“Verbe visage” direbbe Pierre Emanuel).

Volto del Verbo
La misura vera dell’uomo è Cristo
Ugualmente la vera misura del Cristo è l’uomo.
Dalla battaglia nasce la proporzione
Due abissi si sondano, due abissi si donano
L’uno all’altro forma e sostanza, uomo e Dio.
Giacobbe non può donare che la sua miseria
Incommensurabile a lui – degno di Dio
Dio dona il suo Spirito fermento di Dio
Che rende Giacobbe commensurabile alla sua miseria
Giacobbe è ferito all’anca
il Cristo inchiodato alla croce
Ciascuno innestato all’altro per ferita.
Parola di Dio e linguaggio di uomo
Parola umana nella Parola di Dio
Il combattimento è buona notizia
Proferita, contestata e raccolta.
Ogni vocabolo reso chiaro nella stessa carne
Sofferto, odiato e adorato
Volto del Cristo unica somiglianza
Che non finisco mai di decifrare
Sulle tue labbra la nostra tutta santa identità.

(Pierre Emmanuel “Verbe Visage”, in Jacob ed du Seuil, Paris 1970, 163.)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui] 

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.


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