“Donna eccezionale”: così Papa Montini definì Teresa d’Avila in occasione della sua proclamazione a Dottore della Chiesa. Un’espressione ripresa e rilanciata oggi nel 50° anniversario di quell’evento da papa Francesco nel messaggio al Congresso internazionale dell’Università cattolica della città castigliana. In esso risuona l’invito a evidenziare alcuni tratti di un’eredità spirituale e di uno stile ecclesiale tutto al femminile, decisivo anche per la chiesa di oggi nel suo processo di riforma e ripresa delle istanze ancora incompiute avviate dal Concilio Vaticano II come la sinodalità e la ministerialità delle donne.
Riformatrice della spiritualità carmelitana, fondatrice di nuove comunità, Teresa scrisse la storia della sua vita (Libro de mi vida) e del suo itinerario spirituale e mistico (Cammino di perfezione e Il Castello interiore) tra censure, sospetti, contrasti e difficoltà. Tutto ciò non le impedì però di testimoniare la sua esperienza di fede e lo stile innovativo della sua preghiera fondata e vissuta sulla scoperta dell’umanità di Cristo nella propria vita come viatico, pane del cammino, per raggiungere lui e «trasformarsi in lui», pane vivo, pane spezzato, pane eucaristico, pane dei poveri.
Tale lo ebbe a sperimentare nella forma dell’ “orazione mentale” di cui ne indicò le tappe come dimore, attraversando le quali raggiungere una graduale e vieppiù profonda intimità unitiva, sponsale e mistica al Cristo: «Per me l’orazione mentale non è altro se non un rapporto d’amicizia, un trovarsi frequentemente da soli a soli con chi sappiamo che ci ama», (Vida, 8,5). Ma non meno tenace fu l’azione di Teresa nel far valere la sua dignità femminile nella società e nella chiesa del suo tempo, in cui alle donne veniva persino proibito la lettura di libri spirituali e ogni genere di formazione culturale: «Pensino a filare, girando la ruota… e si contentino dell’Ave Maria e del Pater noster»: “Que hilen” e “tomen su rueca” erano infatti gli stereotipi per definire la posizione culturale e sociale della donna nella Spagna conservatrice del XVI secolo.
L’orazione resta dunque il fondamento e la chiave della sua vita, del suo magistero e della sua lotta come donna. Se lei si è battuta era proprio perché le sue figlie potessero avere il diritto di pregare “mentalmente”, liberamente cioè, senza formule, colloquiando con Dio, come lo Spirito suggerisce poiché ciò che veniva messo in questione era proprio la capacità di questa attitudine al pensare spirituale.
Non meraviglia allora che Teresa sia stata una «lettrice autodidatta» che «non apparteneva al gruppo selezionato di puellae doctae, bensì alla massa popolare di donne avide di cultura. Non scrive in latino e nemmeno in uno spagnolo elitario per colti. È in relazione con la letteratura spirituale “romanza”. Lei stessa scrive in “spagnolo popolare abulense” e promuove, all’interno del Carmelo, un movimento di cultura femminile», (T. Alvarez, Gli orizzonti di Teresa di Gesù, Roma 2012).
Ma non fu per questa ragione che negli anni venti dello scorso secolo, in piena rivalutazione dei mistici e teologi spirituali, il titolo di ‘dottore della chiesa’ concesso a Giovanni della Croce venne negato a Teresa: «Obstat sexus», fu semmai il motivo del rifiuto opposto da Pio XI. Un’autentica discriminazione, dunque, che lo spirito del Concilio vaticano II, mettendo a tema l’universale vocazione alla santità nella chiesa (LG 40) e il riconoscimento di un ‘magistero della santità’ presente in tutto il popolo di Dio, senza distinzioni di sesso, consentì di superare: «la totalità dei fedeli ‒ infatti ‒ avendo l’unzione che viene dal Santo, non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo, dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici» (LG 12).
Grazie a questa nuova coscienza di chiesa, che riconosceva in tutti i battezzati il triplice munus di Cristo, il dono/carisma sacerdotale, regale e profetico, fu quindi possibile ritenere accanto a un ‘magistero dei pastori’ anche un ‘magistero carismatico’, frutto delle grazie, delle ispirazioni e dei carismi suscitati dallo Spirito nel popolo di Dio per edificare la chiesa nella sua missione di evangelizzazione. Ogni ostacolo era rimosso affinché Teresa ‒ già proclamata beata nel 1614 e poi santa da papa Gregorio XV nel 1622 ‒ potesse essere annoverata tra i dottori della Chiesa nel 1970 da Paolo VI, insieme a Caterina da Siena.
La Vida, quella della mistica di Ávila, narra di come una donna, Teresa Sanchez de Cepeda y Ahumada, (1515-1682), nata in una famiglia benestante (il padre era figlio di un ebreo convertito), che diceva di essere «senza cultura», e soffrendo molto di non essere «letrada» (fu scrittrice tardiva, tanto che gli scritti appartengono all’ultimo periodo della sua vita) divenne “donna eccezionale”. «Eccezionale come religiosa ‒ scrisse papa Paolo VI ‒ che, tutta velata di umiltà, di penitenza e di semplicità, irradia intorno a sé la fiamma della sua vitalità umana e della sua vivacità spirituale, e poi come riformatrice e fondatrice d’uno storico e insigne Ordine religioso, e scrittrice genialissima e feconda, maestra di vita spirituale, contemplativa incomparabile e indefessamente attiva; com’è grande! com’è unica! com’è umana! com’è attraente questa figura!» (Omelia, 27 settembre 1970).
Ai piedi del Maestro, in ascolto come Maria della sua Parola, lì acquisì la docenza evangelica. Quella apostolica l’ottenne invece per amore della chiesa vissuta nella forma di una itineranza di discepola per tutta la Spagna ad infiammare di nuova profezia una chiesa paga della sua dottrina, del suo sapere e del suo potere. Instancabile come Marta nel servire al processo di rinnovamento e riforma della chiesa, non tanto nelle strutture, ma nel tessuto più profondo della sua coscienza, della sua spiritualità e umanità: “sentire cum Christo per sentire cum e in ecclesia”.
«Quando si proibì la lettura di molti libri in lingua volgare, io ne soffrii molto, perché la lettura di alcuni mi procurava gioia, e non potendo ormai più leggere perché quelli permessi erano in latino, il Signore mi disse: “Non darti pena, perché io ti darò un libro vivente”. Io non riuscivo a capire che cosa quelle parole potessero significare, non avendo ancora avuto visioni», (Vida 26,5). Quel libro era il Cristo stesso che le parlava. Così proprio lei, cui tutti volevano imporre obbedienze, censure, divieti, divenne un “Dottore” per tutta la Chiesa e, diversamente dai molti teologi ed ecclesiastici suoi contemporanei, lei salì sulla mistica cattedra, ai piedi del suo Maestro, mentre gli altri rimasero dimenticati, seduti nei banchi per essere citati, di tanto in tanto, solo da qualche storico. Questi si illusero di rinchiudere lo Spirito del risorto nuovamente dentro il Cenacolo, sprangando porte e finestre alla sua chiesa, senza rendersi conto dell’inutilità e della sofferenza provocata da quei diktat non negoziabili pronunciati in nome di Dio, mentre il suo spirito spirava altrove.
A lei, rinata dallo spirito e completamente trasformata dall’umanità del Cristo, inviata a una chiesa da riformare accadde allora ‒ come anche oggi non di rado accade con i piccoli, i poveri, gli umili, gli illetterati ‒ di essere visitata da quello spirito che Gesù descrisse come «il vento che soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito» (Gv 3,8).
La sua esperienza spirituale storicamente si colloca nella Spagna del XVI secolo nel contesto di una cristianità in riconquista e di una chiesa in controriforma. Il che non impedì ma anzi favorì il fiorire di molti movimenti spirituali che contribuirono al nascere della ‘devotio moderna’: una spiritualità che attingeva alle fonti bibliche e patristiche, fondata, non già sulle devozioni comandate, ma sul colloquio personale con Dio pervaso di affettività e incentrata sull’imitazione di Cristo.
“Nelle sue mani”: ricorre spesso questo invito nei suoi scritti a testimoniare la fiducia che lega coloro che si amano. «In me cerca te e in te cerca me», proprio ad imitazione del Figlio unigenito che si consegna con pieno abbandono nelle mani del Padre. Le mani di Gesù sono così luogo simbolico dell’incontro, dello scambio, mistico e insieme profondamente umano, il luogo in cui il Padre consegna l’umanità e l’intera creazione al Figlio e questi fa risplendere in essa l’immagine e la somiglianza infinitamente risplendente sul suo volto: «Un giorno, mentre stavo in orazione, egli volle mostrarmi solo le mani: erano di così straordinaria bellezza che non potrei descriverla. A tale vista rimasi molto sconvolta, come avviene sempre in principio, di fronte a qualsiasi nuova grazia soprannaturale concessami dal Signore. Dopo pochi giorni vidi anche quel suo divino volto e credo di esserne rimasta completamente rapita» (Vida, 28,1).
Nel vangelo di Giovanni, 3, 36 Gesù dice: «Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa», e in 13,3 è detto: «sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita». Ma che cosa, il Padre, gli ha veramente consegnato nelle mani? La riposta segue subito dopo: «Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto». Il Padre ha messo nelle mani del Figlio i nostri piedi, ciò che caratterizza l’essenziale dell’umano, dell’homo viator, il suo essere in ricerca, in cammino, pellegrino dell’assoluto, errante in questa vita come Abramo e come anche Teresa. Nel gesto della lavanda dei piedi si rivela il gesto di una comunione e fraternità da attuarsi nel servizio vicendevole, profezia di umanità e comunità nuove.
Nel Cammino di perfezione Teresa dice alle sorelle: «Cercate sempre il più perfetto. Vi scongiuro per amor di Dio di pregare il Signore affinché ci esaudisca. Da parte mia, non ho mai cessato di farlo, nonostante la mia grande miseria: si tratta della sua gloria e del bene della sua Chiesa, ed è qui che convergono tutti i miei desideri». Il desiderio di Teresa era che si testimoniasse la pienezza di vita sperimentata nel suo cammino di fede e che venisse riconosciuta la dignità delle sue sorelle e del loro servizio nella chiesa: «No, o Creator mio, Voi non siete ingrato, e sono sicura che esaudirete le loro domande. Quando eravate su questa terra, lungi d’aver le donne in dispregio, avete anzi cercato di favorirle con grande benevolenza». (Cammino di perfezione, 3,7).
Anche oggi Tersa d’Avila avrebbe scelto la clausura come forma di vita? Posso supporre di sì, anelando essa ad una esistenza tanto intensamente fraterna e allo stesso tempo tutta centrata su un’intima amicizia con Gesù, quale difficilmente si potrebbe pensare in altri contesti. E, anche se nascosta, con una sua efficacia apostolica che non ha bisogno di essere legata alle parole per essere lievito evangelico e vivissimo fermento per la Chiesa del nostro tempo.
Il nostro Carmelo, di via Borgovado 23, e le sorelle che l’abitano è lì a testimoniare che è ancora e proprio così. Fray Luis de Leon nel 1588 scriveva: «Io non conobbi né vidi la santa Madre Teresa di Gesù mentre viveva, ma ora che vive in cielo la conosco e vedo, quasi sempre, nelle due immagini vive che ci lasciò di sé e che sono le sue figlie e i suoi libri, che a mio giudizio sono i maggiori testimoni fedeli e di singolare rarità della sua grande virtù».
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Andrea Zerbini
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