«Insegnaci i giorni a contare, a cercar la sapienza del cuore. Mille anni ai tuoi occhi che sono? Sono appena il giorno di ieri, quanto un turno di veglia la notte». Nel Salmo 89(90), qui nella traduzione poetica di David Maria Turoldo [Qui], il salmista chiede a Dio di imparare a computare i giorni, perché – nonostante siano pochi: «appena un sospiro, settanta, ottanta se uno è più forte» – contandoli con lui giungerà al tesoro del suo cuore, a quella saggezza che tiene lontani dal farsi degli idoli.
Quella saggezza che ci distoglie dal prostrarsi davanti a loro sacrificando la libertà: che li ripudia riconoscendoli incapaci di relazione, simulacri che ambiscono ad essere imitati per sprofondarci nell’afasia del nulla. Essi trasformano il cuore di carne in cuore di pietra, costringendo all’immobilità quella libertà chiamata invece a erompere nella nostra vita per contare i giorni del proprio cammino.
Gli idoli viceversa non camminano né fanno progredire. Immobili, muti, non vedono, non sentono, non sanno contare i giorni, né conoscono gli itinerari e le strade delle nostre vite, dei nostri racconti, delle storie. Sono queste infatti che aprono la libertà al segreto della sapienza, ponendola in compagnia di cantastorie, trovatori, menestrelli.
«Sapienza in piedi» proclama il diacono nella liturgia ortodossa, quando dalle porte regali dell’iconostasi entra portando il libro dei vangeli. E il sacerdote ripete ancora stando davanti alla santa mensa, rivolto a occidente: «Sapienza, in piedi, ascoltiamo il santo vangelo. Pace a tutti». In piedi per mettersi in cammino con la sapienza: che è illuminazione per il discernimento, consapevolezza originaria e insieme narrativa, e sequela della Parola di Dio in cammino.
Si dice infatti che essa conosca le prime due lettere del Tetragramma del nome di Dio yod, he che aprono il cammino alle altre due, waw, he e poi scorrono e si rincorrono per tutto l’alfabeto ebraico. Nel quale, come noto, viene conferito un valore numerico ad ogni lettera, che ne fa traboccare il senso, amplificandolo e arricchendolo con storie e racconti: ed è proprio per questi cammini narrativi, contando e raccontando i giorni, che Dio intreccia la sua parola, facendosi conoscere nelle storie del suo popolo e in quelle di tutti i popoli.
La sapienza che racconta sa percepire nella realtà la pluralità dei linguaggi. In essi si traduce e si esprime svelando la verità delle cose, pur nei suoi aspetti sempre differenti: perché la sapienza sa dire in molti modi il vero della vita. Senza chiudere i giudizi in modo definitivo, essa opera pure una sospensione del giudizio per liberarsi dai pregiudizi e così restare ospitale, anche nella conflittualità, nei paradossi, lasciando un poco socchiusa la porta anche alle storie impossibili, andando in cerca di quelle perdute.
Un cuore saggio è così un cuore palpitante perché narrante. Giorno dopo giorno il suo ritmo è fatto di battiti e di cadenze, di inizi e interruzioni, di riprese e di aggiunte. Dopo ogni pausa ecco un nuovo inizio, come lo scorrere del computare e le pause del narrare.
La parola detta si interrompe, viene lasciata in sospeso; un soffio di silenzio e poi riprende, così come si interrompono al sorgere dell’aurora i racconti della giovane Shahrazād che – contando anche le notti non solo i giorni, avendo nel cuore la cura degli altri e computando per mille e una notte – giunge a quella saggezza capace di cambiare il cuore di Sciahriar, il principe di Persia, facendolo infine rinsavire dai suoi propositi insipienti.
Nella Bibbia, contare è raccontare. Questo deriva dal precedente ed entrambi sono generativi di cambiamento: i numeri cambiano sempre all’infinito, i giorni non sono tutti uguali, al pari delle storie che si vanno narrando: «Manda una sua parola ed ecco si scioglie in altre parole, fa soffiare il vento e scorrono le acque dei racconti» (cf. Sal 147).
Contare i giorni significa fare memoria e ritornare al vissuto e alle sue storie per inserirle in una storia più grande, nuova, in una trama narrativa che racconta di liberazione dal male e di un futuro continuamente riaperto da una presenza costante e fedele, capace di aprire varchi di vita alle nostre storie interrotte.
Narrare per ricordare, per tornare su quanto abbiamo vissuto, per inserire i singoli eventi in una mappa di senso, in una trama che non è solo già narrata ma ancora da narrare, che ci colloca nell’orizzonte più ampio di una storia di salvezza (narratio salutis), facendoci partecipi, colloquiali e narratori del mysterium liberationis.
Non c’è futuro senza memoria. Non c’è memoria senza narrazione, ma c’è narrare e narrare: come vi è una memoria autoreferenziale e una memoria che trasforma, così è pure quando si contano e narrano i giorni per giungere ad un cuore saggio. Occorre scegliere.
Nel Deuteronomio la memoria continuamente intreccia il quotidiano “Ricordate, fate memoria”, diceva Mosè al suo popolo. Lo sguardo profetico sul futuro parte e si sviluppa partendo dalle radici della memoria e vivendo la concretezza del tempo presente.
Nel messaggio per la Giornata delle comunicazioni sociali papa Francesco ha domandato, ricordando un passo dell’Esodo, che la vita si faccia storia: «“Perché tu possa raccontare e fissare nella memoria” (Es 10,2). Nella confusione delle voci e dei messaggi che ci circondano, abbiamo bisogno di una narrazione umana, che ci parli di noi e del bello che ci abita. Una narrazione che sappia guardare il mondo e gli eventi con tenerezza; che racconti il nostro essere parte di un tessuto vivo; che riveli l’intreccio dei fili coi quali siamo collegati gli uni agli altri».
Così anch’io vorrei fare memoria del nostro Sinodo diocesano (1985-1992), contarne i giorni a quanti, venuti dopo, non ne hanno memoria. Riaffiora in me il detto evangelico del perdere e del ritrovare la propria vita (Mt 10,39) ogni volta che il pensiero va al Sinodo diocesano e alla sua breve ma intensa recezione. Vale ancora per me l’impegno a viverlo come un mandato ricevuto dal vescovo Luigi Maverna [Qui]: “Ecco il dovere di camminare insieme… andando a tutti”. Ogni volta facendo questo, è la comunità che si ritrova.
In quel tempo scoprii e compresi in modo nuovo il senso di essere chiesa e il mio ministero con i confratelli e tra la gente. Ricordando la lettera pastorale del vescovo Filippo Franceschi [Qui]: “Amiamo questa Chiesa” – in occasione delle celebrazioni dell’VIII Centenario della Consacrazione dell’Altare della Basilica Cattedrale di Ferrara (8 Maggio 1177 – 8 Maggio 1977) – scritta proprio alla vigilia della mia ordinazione presbiterale, in essa egli diceva: «Camminare insieme non è uno slogan: può indicare un programma…Vuol dire in ogni caso andare avanti insieme, sapendo modellare il proprio passo su quello degli altri».
Posso dire che ho imparato al sinodo ad amare le persone nella chiesa e fuori di essa in un modo nuovo. Anche ora, il più delle volte, come un fiume carsico, non ho mai dismesso l’impegno di praticare stili di sinodalità permanente.
L’unità pastorale ne costituisce oggi l’orizzonte verso cui camminare, realizzando così ciò che Helder Camara [Qui], venuto a Ferrara nel 1979, quasi profeticamente aveva anticipato nella sua riflessione una prospettiva sinodale per la nostra chiesa: “Se si sogna da soli, è solo un sogno. Se si sogna insieme, è la realtà che comincia”.
I sogni, poi, non si perdono, ma si nascondono e si risvegliano quando li raccontiamo agli altri; diventano contagiosi, soprattutto se narrano di quegli incontri e pratiche, di quelle giunture di comunione che sono state capaci dentro di te di alimentare la passione e la gioia di essere chiesa per gli altri e chiesa unita: è il sogno che si realizza quando viene alla luce nella realtà quotidiana.
«È bello guardare agli anni del nostro Sinodo, – scriveva il vescovo Maverna nel 1993 – come a una stagione della Chiesa di Ferrara-Comacchio. Anni di consultazione e di confronto, di riflessione e di approfondimento. Stagione in cui la nostra piccola realtà è stata esaminata alla luce della natura e della missione della grande Chiesa. Missione che ha in sé motivazioni e forze per rinnovarsi sempre e camminare, procedere e precedere profeticamente, informare e stimolare la storia del mondo di oggi, dai ritmi e dagli avvenimenti accavallantisi e sorpassantisi vertiginosamente.
Idea del Sinodo è stata quella di persuadersi e ripersuadersi che la Chiesa non è stata voluta per sé, ma per il mondo, la sua salvezza e la sua vita. Mediante la Parola di Dio, i Sacramento di Cristo, la testimonianza della carità. Per essere a servizio, con tutti i suoi membri e ai vari livelli, come comunità.
Attorno a questa convinzione di fondo e di sempre, per ogni piano pastorale – dopo le premesse tracciate da s. e. Mons. Filippo Franceschi, di v. m. – ci si è interrogati via via in tre momenti o fasi: parrocchiale (1986 – 1989), vicariale (1991) e diocesana (1992). [Anche qui si è voluti iniziare dal basso dalle narrazioni della gente] L’intervallo (1990) è stato occupato dalla preparazione alla visita pastorale del nostro Papa Giovanni Paolo II (22-23 settembre 1990), ed è stato una pausa molto operosa e fruttuosa per il nostro Sinodo.
Se da un lato ha significato, con l’ascolto del supremo maestro della Chiesa, la volontà di vivere costantemente secondo le indicazioni del Magistero, dall’altro ha raccolto il contributo specifico che dai discorsi pontifici è stato donato alla comunità di Ferrara-Comacchio, tanto per gli ambiti della vita ecclesiale, quanto per i settori dell’attività pastorale. Le parole allora rivolteci costituiscono i documenti primi del Sinodo e le più autentiche direttive del lavoro post-sinodale.
La stagione sinodale, apertasi con l’intenzione di sottolineare principi di fondo e offrire pochi concreti e mirati orientamenti, ha visto nel suo svolgersi il prevalere della prima tendenza. E ci si è soffermati maggiormente.
Il Sinodo, pertanto, è continuato nel 1993. E, ora, continua ancora nella vita. La sinodalità – espressione della comunione, tanto invocata e tanto gustata nell’esperienza delle riunioni e degli scambi di opinione – deve continuare. È una dimensione qualificante la Chiesa. Viviamola!», (dal Libro del Sinodo).
Una recezione, quella del sinodo diocesano, che è durata appena pochi anni. E tuttavia non credo che essa sia finita per me, anche se sono mutati con i vari episcopati gli orientamenti e gli stili pastorali indicati negli anni successivi. Perdersi per ritrovarsi è del resto la logica evangelica dell’amore. E dentro me le parole di Gesù hanno sempre evocato, per raffigurarmi la recezione sinodale, la figura del fiume carsico.
Il Sinodo è rimasto sempre presente, nascosto e affiorante nella nostra Chiesa come un fiume carsico: risonanza e insieme provocazione di un camminare insieme che mi ha fatto sentire la profezia di essere Chiesa povera con i poveri, Chiesa missionaria per amore del vangelo, Chiesa comunione tra noi e in dialogo con la gente. Un’immagine, quella del nascondersi e dell’affiorare di nuovo, che ho ereditato da mio nonno Giuseppe e dai suoi racconti della prima guerra mondiale sul Carso quando mi spiegava per l’appunto la morfologia di questo singolare fenomeno fluviale.
Ricordando il Sinodo diocesano bisogna però distinguere anche oggi tra ricordo e ricordo. Praticare una cultura della memoria e attualizzarne la narrazione è possibile solo se si hanno gli occhi aperti sull’oggi. Con gli occhi aperti e rivolti in avanti il ricordo non rimane prigioniero del passato, immobilizzato nel tradizionalismo che è tradimento della memoria umana e cristiana, ma diventa invece generativo di rinnovamento, quando si incarna di nuovo nella storia, perché confronta e prende atto di cose che altrimenti non vedrebbe nell’oggi, permettendo così di proseguire in un cammino iniziato prima.
Ci sono ricordi e narrazioni con cui ci autoconfermiamo ed altri che invece ci trasformano, ci cambiano. Credo che il Sinodo abbia dato a quanti si sono lasciati coinvolgere nelle sue narrazioni la coscienza di una Chiesa che può cambiare, che può rinnovarsi insieme; e questa è stata pure la sua intenzione iniziale: la recezione del rinnovamento conciliare nella vita e nella missione della nostra Chiesa chiamata ad evangelizzare la nostra terra.
Il Sinodo fece propria quella duplice polarità di una Chiesa consapevole della sua missione, con uno sguardo al particolare della nostra realtà e all’intero della nostra situazione e territorio. Significative furono le innumerevoli assemblee cittadine, risvegliando lo stile dialogico e la forma relazionale, sinodale appunto, della Chiesa di allora, che si interrogava su se stessa e sulla sua vocazione in dialogo con la società.
Ogni cammino sinodale nasconde una profezia, ma pensando a Shahrazâd [Qui], interrompo qui il racconto. Lo continuerò il prossimo sabato, presto di mattina.
«… Non aveva ancora terminato il racconto quando spuntò il giorno. Shahrazâd tacque. Il re, palesemente molto imbarazzato, si chiedeva come doveva fare per conoscere la fine della storia. Quando Dunyâzâd scorse il chiarore dell’alba esclamò: “Sorella, quant’è bello e straordinario il tuo racconto!“».
«”Quello che avete sentito” insinuò allora la narratrice “non è niente in confronto di quello che mi propongo di rivelarvi domani notte… se sono ancora in vita e se il re mi concede una proroga per raccontarlo. La mia storia contiene infatti numerosi episodi ancora più belli e straordinari di quelli che vi ho fatto gustare”. “Sì, narraci presto il seguito del racconto di ieri”, insistette il re. “Che cosa è accaduto al nostro eroe? Muoio dalla voglia di saperlo”. “Volentieri, fortunato re” rispose Shahrazâd. “Con amore e con rispetto ti obbedirò”».
«E continuò in tal modo a dipanare il filo dei suoi racconti, interrompendolo alla fine di ogni notte e riprendendolo nel corso della notte successiva, sempre con il permesso del re Shahriyâr… E mille e una notte trascorsero».
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Andrea Zerbini
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