PRESTO DI MATTINA
Candelora, la festa della luce
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Candelora, 2 febbraio. Una festa di luci, che potremmo chiamare anche ‘l’aurora dell’anno’, prendendo in prestito l’espressione riservata all’albero del sorbo (Sorbus aucuparia) dai fiori bianchi composti da cinque petali, che emanano lo stesso profumo del biancospino, mentre le sue bacche rosse rivestono in autunno i rami come coralli, restando così raggianti fino ad inverno inoltrato.
A Candelora la luce ritorna a brillare. Entra come Gesù nel tempio del mondo, preludio della natura che rifiorisce e pare dirci “presente, ci sono, non manco all’appuntamento, all’incontro con voi”. Alzatevi porte antiche! apritevi porte chiuse del solstizio d’inverno! entra il sole di giustizia che trasfigura e accende l’universo in attesa!
Eteria, scrittrice romana del V° secolo, ricorda per prima nel suo diario questa festa, descrivendo il suo viaggio nei luoghi santi: «Si accendono tutte le lampade e i ceri, facendo così una luce grandissima» (Peregrinatio Aetheriae 24, 4).
È nome popolare Candelora. Ricorda un passato lontano: le fiaccolate rituali nell’antica Roma; riti di purificazione e di rinnovamento del fuoco sacro nella casa della dea protettrice della città, Vesta, custodito dalle vergini vestali. Ma soprattutto la candelora è anticipazione e primizia di quell’altra solenne e peregrinante fiaccolata nella notte della veglia pasquale. Allorquando, dopo il rito del lucernario, in cui viene benedetto il fuoco nuovo, è fatta brillare la luce del cero pasquale, l’alta candela, che spargerà il suo raggio, il sabato santo, sul sepolcro vuoto. Come scintilla nella stoppia essa si presterà ad accendere tutti gli altri lumi tenuti in mano dai presenti trasfigurati, nella notte, come luci che camminano.
In occidente la ricorrenza del 2 febbraio prese sempre più la forma di una festa mariana, così da far prevalere l’aspetto di purificazione della madre, la vergine Maria, quale mistica aurora di redenzione, che dopo aver generato il figlio Gesù lo porta al tempio per offrirlo al Signore. In Oriente invece la festa si connotò in senso cristologico, assumendo il nome greco di Ipapante (lett. incontro). Presentato al tempio, Gesù si assoggettava infatti alle prescrizioni della legge, ma in realtà veniva incontro al suo popolo, che l’attendeva nella fede, rivelandosi anche luce per tutte le genti. Ed è proprio questo tratto che prevalse con la riforma liturgica del Concilio Vaticano II, allorché la festa si allineò alla tradizione orientale prendendo il nome di “Presentazione del Signore”.
“Ma com’è la luce di candelora?” Essa ricorda la luce della poesia. O anche “una mistica chiara”, come direbbe Maria Zambrano, riferendosi a Giovanni della Croce tramite un concetto di ‘chiarezza’ che la filosofa spiegherà meglio nel libro Chiari del bosco (Milano 2004, 13-14). Il chiaro del bosco allude infatti a una condizione mistica; mentre il riferimento alla poesia ci ricorda quell’esperienza del lettore che, ostinandosi nel cercarvi un senso, non trova nulla, finché abbandonandosi ai versi, riceverà una risposta illimitata e imprevista: «Il chiaro si mostra ora come specchio che trema, chiarezza palpitante che appena lascia comporsi qualcosa che insieme si scompone. E tutto allude, tutto è allusione e tutto è obliquo, la luce stessa che si manifesta come riflesso si dà obliquamente, ma non liscia come spada. Leggermente si curva la luce trascinando con sé il tempo. E non si dimenticherà mai che la curvatura di luce e tempo non è castigo, o che non è solo questo, bensì testimonianza e presenza frammentata della rotondità dell’universo e della vita, e che il tremolio è iridescenza della luce che non cessa di discendere e di curvarsi in ogni anfratto oscuro, che si insinua così, giacché di entrare direttamente dove più recondite sono le nostre difese può permetterselo solo ricorrendo a una violenza travolgente. E i colori stessi nascono per renderci la luce accessibile. E l’Iride risplende, prima che in alto nei cieli, in basso tra l’oscuro e il folto, creando così un imprevedibile chiaro propizio. Brillano i colori sostenendosi fino all’ultimo istante di un dissolvimento nel gioco dell’aria con la luce, e del cielo che quasi impercettibilmente si muove. Un cielo discontinuo, esso stesso anche un chiaro. E i colori scuri appaiono come luoghi privilegiati della luce che in essi si raccoglie. E poi c’è da proseguire di chiaro in chiaro, di centro in centro, senza che nessuno di essi perda né sconfessi nulla. Tutto si dà iscritto in un movimento circolare, in circoli che si susseguono ogni volta più aperti finché non si giunge là dove ormai non c’è più che orizzonte».
Ma non è forse questa l’esperienza che facciamo ogni volta che attraversiamo i boschi in montagna, sprofondati nella penombra oscura di pini e abeti? All’improvviso, quando non te l’aspetti, il chiarore di una radura, di ridotti spazi tra gli alberi diradati, o piccole piante cresciute solo un poco, incapaci di schermare la luce che appare dall’alto. Chiarori di vita, di significati, spuntati all’improvviso in cui sostare, per osare poco dopo un altro passo sul sentiero fattosi di nuovo oscuro, un passo ancora custoditi da quel chiarore.
Provo la stessa sensazione facendo camminare la luce della mia candela nella veglia pasquale. L’alone di luce ‒ come quello che cinge la luna nelle notti in cui è piena e appena velata dal filtro di nubi quasi trasparenti, così da formare nel buio del cielo un’aureola che dal centro luminosissimo va vieppiù sfumando e di nuovo si perde nell’oscurità ‒ così assomiglia il riverbero della mia candela nel buio delle vie che attraverso per riconoscere un volto, fare luce ai passi di chi segue, indirizzando una preghiera a una porta o a una finestra chiuse.
La luce della candelora è luce tremolante, compagnia nel passaggio tra la notte oscura e quella della «fiamma d’amor viva, che soave ferisce – scrive Giovanni della Croce – Delicata carezza, Tu parli di vita eterna. Cambiando la morte in vita. O fuoco nel cui splendore le oscure profondità rischiari al mio diletto. Portando luce e calore. O amore che tutto crei. Sublime eterna carità. La tua fiamma è più forte d’ogni cosa. Più forte della morte». È questo allora l’incontro con la “chiara mistica” «che disvela la creazione» ‒ scrive ancora Maria Zambrano ‒ non è un abbandono della realtà da parte dei mistici, ma un addentrarsi in essa, inoltrandosi nel folto dell’umano che «fa leva sulla misericordia, sulla presenza meravigliosa del mondo e delle sue creature» (Giovanni della Croce), sulla «carne […] col suo palpitare», e non ultimo sulle «cose considerate maternalmente» (Teresa d’Avila)», (Pensiero e poesia nella vita spagnola, Roma 1992, 110). Finché stupita di fronte a tanta chiarezza essa esclama: «Che religione è mai questa del Carmelo che permette, e anzi genera, la poesia?», (La confessione come genere letterario, Milano 1997, 110).
Fu il vescovo Luigi Maverna, il vescovo del Sinodo diocesano, a farmi appassionare a questa festa che riscatta la notte con un soffio di luce, che si affida, si offre, senza essere spenta dall’oscurità. Lui per il quale l’incontro e il convenire ecclesiale, non meno di quello con le persone della città, dovevano attuarsi con stile sinodale, rischiarandosi l’un altro, ciascuno con la propria luce. Egli così diceva: «È solennità che mette a fuoco, dei Misteri di Cristo, quello dell’offerta al Tempio. Gesù viene presentato al Tempio, a Dio, al Padre. Viene presentato, ossia offerto. Offerto dalle mani verginali di Maria, offerto e riscattato con una copia di tortore o di giovani colombi, prezzo dei poveri. Offerto, sì; ma insieme “autoffertosi”, su quelle mani verginali e sacerdotali.» (Omelia, 2 febbraio 1994).
Candelora è una Luce che si perde e si ritrova, da custodire e da donare nel discernimento e nella fedeltà di ogni incontro, perché si possa almeno un poco dimorare nell’amore.
«Luce gentile» la chiama, in una poesia, John Henry Newman (1801-1890); che intitola Candelora un altro suo scritto poetico, riservato a quel frammento di tempo che va da Natale a Pasqua, collegando il mistero dell’Incarnazione con quello pasquale. È qui che si incontra la luce gentile della Candelora: come se, dopo 40 giorni, spente le luci della natività, ci trovassimo d’improvviso al buio ad iniziare l’arduo cammino della quaresima, e non sapessimo come proseguire. Ma ecco venirci incontro i santi Simeone e Anna, che uscendo dal tempio mettono tra le braccia anche a noi la “luce di riserva”, da loro riconosciuta e accolta: un’ulteriore provvista di luce, per quanto tremolante e flebile, che basterà a tenere unite la luce dal Natale con quella ancor più intensa irradiata dalla Pasqua, quella del Cristo Tutto-Luce, è luce per tutti.
Poesia di luce è la Candelora di Newman: «Le luci angeliche, annuncio del mattino di Natale,/ che attraversarono dardeggiando il cielo,/ passano via e scompaiono alla Candelora,/ risplendono e poi muoiono./ Come luci di funerale estinte per Natale/ risplendono le candele del vecchio Simeone./ E poi per otto lunghe settimane è più,/ noi attendiamo nel grigio del crepuscolo,/ finché l’alta candela spenderà un raggio sul sabato Santo./ E mentre la spada nell’animo di Maria/ va a segno, noi nascondiamo/ nei nostri cuori, e contiamo,/ le ferite di passione e di orgoglio./ E però, anche dopo che è passata Candelora e son cessati gli Alleluia,/ è musica Maria nel nostro bisogno, e luce è Gesù di scorta».
Lead, Kindly Light fu scritta da Newman su una nave carica di aranci diretta a Marsiglia il 16 giugno del 1833. Nel suo primo titolo era paragonata alla nube dell’esodo, pure questa una luce effusiva di gentilezza: di giorno riparava il popolo in cammino nel deserto dalla calura, mentre di notte lo illuminava e lo proteggeva dal freddo come un fuoco.
«Guidami, Luce gentile, in mezzo alla tenebra che mi circonda,/ Guidami Tu innanzi!/ Buia è la notte, ed io son lontano da casa./ Rendi saldi i miei piedi: io non chiedo di vedere/ l’orizzonte remoto, mi basta un solo passo./ Non mi sono mai sentito come mi sento ora,/ né ho pregato che fossi tu a condurmi./ Amavo scegliere e scrutare il mio cammino;/ ma ora sii tu a condurmi!/ Così a lungo la tua forza mi ha benedetto,/ e certo mi condurrà ancora,/ landa dopo landa, palude dopo palude, oltre rupi e torrenti, finché la notte scemerà;/ e con l’apparire del mattino rivedrò il sorriso di quei volti angelici/ che da tanto tempo amo e, per un tratto, avevo perduto» (Apologia pro vita sua, Milano 2001, 84). Dopo la conversione al cattolicesimo Henry Newman si sentì attratto dalla forma di vita della Congregazione dell’oratorio di San Filippo Neri per la loro scelta della semplicità, dell’umiltà, della vita comune, della gioia e di quella gentilezza da lui cantata e diceva: «Obbedire alla luce che possediamo è il modo per acquisire ulteriore luce… agisci secondo la luce che hai anche se sei nel mezzo delle difficoltà e verrai portato avanti non ti immagini fino a dove» (Ian Ker, Newman. La fede, Milano 1993, 163).
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Andrea Zerbini
Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)
PAESE REALE
di Piermaria Romani