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ice un proverbio iraniano: «Se apri l’occhio del tuo cuore, potrai veder cose altrimenti invisibili».

Aperuit illis sensum. Come poco prima aveva fatto ad Emmaus apparendo a due di loro, anche a Gerusalemme Gesù risorto aprì il cuore dei discepoli, la loro mente, i loro occhi. Di più: riaprì loro il cammino del vangelo, rinvigorendo quella buona notizia nascosta come un seme nelle scritture sante, «nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». A quei discepoli turbati e dubbiosi nel cuore, ridonò un’esultanza indicibile, tanto che stentavano a credergli proprio per la gioia di quell’incontro. Quella stessa irrefrenabile gioia, che il vangelo riporta, contornava l’agire salvifico del Signore: come quella volta che in terra straniera, nella Galilea delle genti in pieno territorio delle dieci città (Decàpoli), egli guarì un sordomuto. Proprio come allora, sul punto di lasciare loro il suo Spirito, «guardando verso il cielo, emise un sospiro e disse: “Effatà”», cioè: «Apriti!». E subito anche agli Undici si aprirono loro gli orecchi, si sciolse il nodo della loro lingua perché a Pentecoste potessero comunicare a tutti il buon annuncio della sua passione, morte, risurrezione e del suo ritorno: il vangelo del suo amore.

Venne poi un uomo mandato da Dio il cui nome era Giovanni e, nei pochi anni del suo pontificato, aprì il cuore della gente alla gioia, sino a scardinare anche quello della Chiesa, quando aprendo solennemente il Concilio pronunciò il suo discorso dicendo: «Gaudet mater ecclesia, la santa madre chiesa gioisce, poiché, per singolare dono della Provvidenza divina, è sorto il giorno tanto desiderato in cui il concilio ecumenico Vaticano II qui, presso il sepolcro di san Pietro, solennemente si inizia con la protezione della Vergine santissima, nel giorno stesso in cui si celebra la sua divina maternità… Nell’esercizio quotidiano del nostro ministero pastorale ci feriscono talora l’orecchio suggestioni di persone, pur ardenti di zelo, ma non fornite di senso sovrabbondante di discrezione e di misura. Nei tempi moderni esse non vedono che prevaricazione e rovina; a noi sembra di dover dissentire da cotesti profeti di sventura, che annunziano eventi sempre infausti, quasi che incombesse la fine del mondo. Nel presente momento storico, la Provvidenza ci sta conducendo ad un nuovo ordine di rapporti umani, che, per opera degli uomini e per lo più al di là della loro stessa aspettativa, si volgono verso il compimento di disegni superiori e inattesi; e tutto, anche le umane avversità, dispone per il maggior bene della chiesa», (11 ottobre 1962).

Fu alcuni anni prima, il 25 gennaio 1959, nella basilica di San Paolo fuori le mura, ricorrendo la festa della vocazione/conversione dell’apostolo, in occasione della quale Giovanni XXIII aveva celebrato anche la messa di chiusura della “Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani” (18-25 gennaio), che il Papa rivelò l’intenzione di indire un concilio. Nello stesso giorno, un breve articolo di stampa diceva che il concilio voleva essere anche un invito alle comunità separate per la ricerca dell’unità. Un concilio, dunque, desiderato soprattutto per promuovere l’unità nella famiglia cristiana e umana, ritenendo come un dovere suo proprio «adoperarsi attivamente, perché si compia il grande mistero di quell’unità».

Aperuit illis sono pure le parole di apertura della lettera apostolica con cui Papa Francesco istituisce nella chiesa la “domenica” della parola di Dio, che cade, non a caso, in prossimità della Giornata di dialogo tra Ebrei e cattolici e della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Una scelta che intende segnare un ulteriore passo nel dialogo ebraico-cristiano ed ecumenico, facendo della Parola di Dio il cuore stesso di questo impegno, il progetto già scritto del cammino verso l’unità.

Scrive papa Francesco: «Aprì loro la mente per comprendere le Scritture» (Lc 24,45). È uno degli ultimi gesti compiuti dal Signore risorto, prima della sua Ascensione. Appare ai discepoli mentre sono radunati insieme, spezza con loro il pane e apre le loro menti all’intelligenza delle Sacre Scritture. A quegli uomini impauriti e delusi rivela il senso del mistero pasquale: che cioè, secondo il progetto eterno del Padre, Gesù doveva patire e risuscitare dai morti per offrire la conversione e il perdono dei peccati (cfr Lc 24,26.46-47); e promette lo Spirito Santo che darà loro la forza di essere testimoni di questo Mistero di salvezza (cfr Lc 24,49). La relazione tra il Risorto, la comunità dei credenti e la Sacra Scrittura è estremamente vitale per la nostra identità. Senza il Signore che ci introduce è impossibile comprendere in profondità la Sacra Scrittura, ma è altrettanto vero il contrario: senza la Sacra Scrittura restano indecifrabili gli eventi della missione di Gesù e della sua Chiesa nel mondo».

Il “logo” della giornata è dato dalla raffigurazione di Gesù che si accompagna ai discepoli di Emmaus. È la Parola di Gesù che apre le scritture e traghetta i due discepoli dall’incredulità alla fede, dalla tristezza a un cuore ardente, dal trovarsi accompagnati a uno sconosciuto a un ritrovarsi familiari a lui, discepoli attorno alla sua mensa. Mi piace pensare che in quella celebrazione liturgica itinerante che fu la strada di Emmaus, prima alla mensa della parola e poi a quella del pane, Gesù fu per loro omileta: spiegò e interpretò loro (interpretabatur illis in omnibus scripturis) ciò che lo riguardava nello stile dell’omelia rabbinica, che consiste nell’intrecciare legami non scontati e spesso ancor meno evidenti, tra un testo e l’altro, tra un passo della scrittura ‘vicino’ che si sta leggendo e un altro testo ‘lontano’ ma vivo, che all’improvviso affiora alla memoria. O partendo da un salmo, per arrivare a un passo della Torah, e da questo ai profeti, o ad un altro salmo o dai profeti per arrivare ai salmi. Non è forse accaduto questo lungo la via al termine della quale i discepoli lo riconobbero allo spezzare il pane?

Scrive Alberto di Mello introducendo le letture dal midrash sui salmi: «Molto spesso, anzi di preferenza, poteva accadere che l’omelia sul brano settimanale scelto si aprisse proprio con un versetto dei salmi o degli altri scritti sapienziali. Per meglio dire: il testo dei Salmi “apriva” quello della Torà. L’“apertura”, nell’omelia rabbinica, non è semplicemente l’inizio, l’esordio dell’omelia, ma questa abitudine di illuminare un testo con un altro, un testo povero con un testo ricco, o anche viceversa, fino talora a inanellare tutta una serie di testi, a farne una collana, passando dalla Torà ai Profeti agli Scritti», (Un mondo di Grazia a cura di A Mello http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/un_mondo_di_grazia1.htm).

È la parola di Gesù che apre il senso delle scritture, e le scritture rivelano il senso del suo destino e della sua storia alla comprensione dei discepoli. Le parole della scrittura sono sempre aperte su Gesù e Gesù ne è l’esegeta, l’interprete e chiave di lettura. Esattamente come si canta nelle antifone e nella novena di Natale che ricalcano il testo di Isaia 22,22: «Chiave di Davide, e scettro della casa di Israele, che apri e nessuno chiude, chiudi e nessuno apre: vieni e fa uscire dal carcere il condannato, che siede nelle tenebre, e nell’ombra della morte». Un testo, quello d’Isaia, commentando il quale Antonio da Padova diceva nel sermone di Natale (§ 13): «Dice il Padre, per bocca di Isaia: “Porrò sulla sua spalla la chiave della casa di Davide”. La chiave è la croce di Cristo, con la quale egli ci ha aperto la porta del cielo».

Sulla stessa linea è il testo particolarmente suggestivo del monaco benedettino Ruperto di Deutz (1075- 1129), in cui egli sovrappone i gesti dello spezzare del pane eucaristico e dello spezzare il pane della Parola di Dio: «Gesù prese il libro e lo aprì, cioè ricevette da Dio tutta la Santa Scrittura per adempierla in se stesso… Il Signore Gesù dunque prese il pane delle Scritture nelle sue mani quando, incarnato secondo le Scritture, subì la passione e risuscitò; allora egli prese il pane nelle sue mani e rese grazie quando, adempiendo le Scritture, offrì se stesso al Padre in sacrificio di grazia e di verità» (In Jo VI). Come a dire che c’è una “presenza reale” di Cristo anche nella Parola di Dio, come del resto sostiene il Concilio nella Sacrosanctum Concilium: «il Cristo è presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella chiesa si legge la sacra Scrittura» (§ 7) e più avanti, afferma che attraverso la Bibbia «Dio parla al suo popolo, Cristo annunzia ancora il vangelo» (§ 33). La parola di Dio dona un’energia di grazia, una potenza interiore che è certamente misteriosa ma realissima: perché è il Cristo stesso nel suo Spirito che parla in noi.

Per questo, domani, la domenica della parola di Dio, ricorreremo un a segno per sottolinearne la centralità: l’intronizzazione del vangelo sulla cattedra, sul seggio di colui che presiederà la celebrazione. Il primato, nella celebrazione, spetta al Cristo, unico Signore e maestro della sua comunità convocata tramite la sua Parola.

Nella storia ecclesiastica raccontata da Teodoreto di Cirro, riferendosi alla chiesa di Antiochia degli anni di poco antecedenti al concilio costantinopolitano del 381, che avrebbe riconfermato il concilio niceno circa la questione trinitaria, egli ci riferisce di una chiesa antiochena ancora lacerata da divisioni; non solo per via della crisi ariana, ma per una molteplicità di lacerazioni interne alla stessa comunità ortodossa. Tanto che i vescovi orientali avevano eletto Melezio e quelli occidentali il vescovo Paolino. Vi era contesa e divisione tra le due comunità, pur essendo quella di Paolino molto più ridotta rispetto all’altra, ed entrambe professassero il credo niceno. In questo contesto, per nulla concorde e comunionale, emerge la grande figura di Melezio che incarna nelle sue scelte pastorali lo stile sinodale e rende “al vivo” la prassi del cammino verso l’unità capace di ricomporre le divisioni: «Melezio, il più mite di tutti gli uomini, in modo amabile e insieme benevolo, disse a Paolino: “Poiché il Signore diede anche a me la cura delle sue pecore e tu ti sei dato pensiero delle altre e il nostro pio gregge è in reciproca comunione, uniamo, o caro, le nostre pecore e componiamo le nostre contese per il primato. Pascolando insieme le pecore, diamo loro una comune cura. Se, poi, è la divisione del seggio a generare la contesa, io tenterò di rimuoverla. Io consiglio che, avendo posto su di esso il santo Vangelo, ci sediamo ai lati di esso. Se sarò io ad accogliere per primo la fine della vita, allora tu avrai da solo la guida del gregge; se, invece, sarai tu, allora secondo le mie forze ne avrò la cura io”» (Teodoreto di Cirro, Storia ecclesiastica, Città nuova, Roma 2000, libro V, 3, 13-16).

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.


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