Tornare a immaginare: questa la sfida della fede oggi. Essa è come il cieco nato Bartimeo, a cui Gesù chiedeva: “che cosa vuoi io faccia per te?” “Che io veda” fu la risposta. E quella della fede dovrebbe essere: “Che io torni ad immaginare una cosa nuova, mai pensata prima, una nuova luce capace di far ritrovare la strada nell’oscurità”. Proprio quanto accadde pure nell’esperienza profetica di Isaia, il quale accolse la parola di Dio rivelata in un germogliare di immagini alimentate dall’immaginazione: «Per amore vostro, ecco io faccio una cosa nuova: aprirò una via nel mare, una strada tra le acque profonde e anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa per dissetare la vostra solitudine. Il deserto e la terra arida si rallegreranno, la solitudine gioirà e come fiore di narciso fiorirà; si coprirà di fiori, festeggerà con gioia e canti d’esultanza», (43, 19-20 e 35, 1-2).
Ma ancor più con Gesù è stato un germogliare di parabole, un racconto incessante di immagini e gesti. Un ‘teatro dell’improvviso’ sono i suoi miracoli, le storie del venire inaspettato di un Padre nella vita degli uomini tramite il figlio. Parole e segni generativi di un immaginario capace di trasformare il cuore, di far passare la vita dall’inganno alla verità, dall’illusione alla realtà; del profilarsi di nuovi scenari, di cambiamenti di rotta per dare forma alla fiducia, far rifiorire la speranza mettendo il Padre suo, la sua presenza, nel cuore di ogni immaginazione umana.
Nel vangelo Gesù rivela il Padre, oltre che con la parola, attraverso il suo volto, ma anche riconoscendone i tratti nei volti delle persone che incontra. Egli lo scorge in essi: vede il Padre nei piccoli, nei malati, nei peccatori negli esclusi e ridona forma nuova, umana, filiale e fraterna alle immagini distorte, deformi dell’umano che grida davanti a lui. Come in uno specchio il suo sguardo converte l’immaginazione religiosa stravolta, come le immagini riflesse su specchi deformanti, restituendo dignità a Dio, liberandolo dalle sue caricature idolatriche, e con ciò liberando le persone dai giochi e dai pesi ideologici, moralistici con cui le convenzioni religiose li mortificavano, sino a oscurare l’immagine di figli di Dio presente in loro. Lo stile di Gesù, il suo modo di porsi in relazione, di manifestarsi, l’immagine di sé che dava e che si rifletteva sui volti di coloro che lo contornavano era quella della stessa santità di Dio, la sua santità ospitale, smisurata, che Gesù sperimentava stando nell’intimità con il Padre suo e che si irradiava sul suo volto imprimendosi nei suoi gesti, nelle parole e nel modo di vivere in questo mondo con la gente.
Vedendo il suo abbassarsi sulle persone e il suo rialzarle, la fede che incontra il suo sguardo e vede i suoi gesti, ascoltandone le parole impara così dal maestro a discendere con lui nel cuore di ogni immaginazione umana, anche la più contorta, falsata, sfigurata ed a prendere su di sé le immagini di deformità, di rifiuto, di sopraffazione, di fallimento per trasfigurarle. Non senza conseguenze. A forza di rispecchiarsi nei volti sfigurati portandone il peso, il suo volto diventa quello del servo di Yhwh ‒ come ci ricorda Isaia ‒ deturpato, torna a riflendere. Gesù sfigurato per trasfigurare. La volontà del Padre, diceva infatti Gesù ai suoi amici, è che nulla vada perduto della bellezza/bontà della creazione, dello splendore di grazia che si cela in ogni volto umano: «[Egli] Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima, eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori… Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce», (Is 53,2-4; 11).
Ha ricordato Carlo Maria Martini che «Il caso serio della fede si gioca soprattutto sulla domanda: credi a un Dio che si presenta umile, benevolo, pieno di tenerezza, a un Dio crocifisso? Rispetto all’incredulità crescente attorno a noi la risposta non può essere: miglioriamo la catechesi, organizziamoci meglio, preghiamo di più. Bisogna puntare sul caso serio, aiutare la gente a riconoscere e accogliere [l’immagine di] un Dio che si esprime nella fragilità e nell’umiltà della carne, nel suo avvicinarsi cortese e delicato alle persone, nella potenza di fronte alle tenebre e nella compassione di fronte alla debolezza umana, un Dio che risplende nell’estrema inermità del Crocifisso», (Imparare a credere, Milano 2019, 175).
La fede deve lasciarsi allora infiammare dall’immaginazione e coinvolgersi pure con l’immaginazione dei nostri contemporanei. Una sorta di ‘gioco’, ma serio e profondo, a scambiarsi immagini, come fanno i bambini con le figurine dei calciatori; a mettere insieme tessere di puzzle per ritrovare i volti, le persone, gli ambienti, i paesaggi, i sentieri. È nell’immaginare e nell’essere immaginato che l’uomo aderisce alla realtà e comunica con essa, la trasforma: è fondamentale che nella nostra fede si lasci entrare in gioco l’immaginazione! Essa sta in strettissimo rapporto con il racconto: è la sua trama, e con la storia, ne è sua sequenza. Raccontare non è cadere nell’immaginario; questo legame non toglie nulla al racconto come luogo rivelativo della verità.
Non è un caso dunque che il Vangelo di Tommaso, conosciuto nell’antichità e riscoperto dal romanzo di Dan Brown, non sia stato inserito tra i vangeli che sono normativi per la fede. Il motivo è molto semplice: esso consisteva in una serie di detti attribuiti a Gesù e verosimilmente attinti alla fonte Q, la maggior parte dei quali erano pertanto presenti anche nei quattro vangeli, ma era privo della forma del racconto. Che non è un ‘contorno’, ma il riflesso vivo del logos che agisce nel mondo e fa storia con noi.
Per questo motivo anche il Concilio vaticano II ci parla della comunicazione che Dio fa di se stesso nella storia, presentando la sua rivelazione sotto forma di un dialogo, con immagini di amicizia, di comunione; e in riferimento alla giustizia con immagini di liberazione, di squarciamento delle tenebre del male; di guarigione, di riscatto e di risurrezione di fronte alla malattia, al perdersi nel male e alla morte. Così pure quando parla della realtà della chiesa usa altrettante immagini bibliche: il campo, il podere, l’edificio di Dio, l’ovile, la porta, la madre e la sposa, la vigna di cui Cristo è la vite e noi i tralci, l’immagine del corpo e delle membra di cui Cristo è il capo. Immagini indispensabili per dire il suo mistero, la sua realtà «visibile e spirituale», (LG 6; 7; 8). La chiesa per essere immaginata e compresa, va messa in relazione ‒ paragonata dice il concilio ‒ al mistero di mediazione del Verbo incarnato; è segno e strumento, germe e primizia di colui che porta in sé l’immagine dell’invisibile Dio e rende visibile nella sua umanità l’immagine dell’uomo nuovo «secondo Dio nella giustizia e nella santità vera» (Ef 4,24).
L’immaginazione è il luogo in cui si manifestano le strutture del mondo; quella parte di noi che dà forma in noi alle cose; generativa di universi simbolici differenziati, in cui trovare e mostrare corrispondenze tra gli uni e gli altri. È un ambiente che fa incontrare gli opposti, permette il passaggio dall’uno all’altro. Ha dunque una imprescindibile funzione mediatrice, perché è soglia e frontiera al tempo stesso, pensata non solo per dividere, ma soprattutto come diaframma che tiene unito. È uno strumento indispensabile della fede proprio perché ne condivide l’esperienza della soglia, del passaggio, dell’incontro con la diversità e la libertà dell’altro.
L’immersione nel mondo simbolico dell’immaginazione chiede di essere incarnato nel reale, ma non in modo confuso, mischiando, sostituendo l’uno all’altro, alterando ciò che è proprio di ciascuno; scambiamo il piano delle immagini con quello della realtà.
Compito dell’immaginazione e suo dono è quello di rigenerare la creatività, accumulare esperienze da riversare nella realtà e interpretarla e condividerla e accrescerla in una forma pienamente compiuta, similmente al modo delle note e dello spartito musicale che si realizza, suonandole in un concerto sinfonico.
L’uso sregolato e invasivo dell’immaginario come avviene oggi, inflazionato da stereotipi a finalità commerciali e ideologiche, allontana dalla bellezza; si ferma agli strati scintillanti, superficiali, incantatori di essa, manipolando e mortificando la sua forza generatrice sino a renderla sterile, priva di creatività nel profondo.
Accendere l’immaginazione è il titolo dell’ultimo libro del teologo domenicano Timothy Radcliffe. Egli ci ricorda che se si vuole che il cristianesimo torni a far ardere il cuore va presentato come un’avventura radicale: «Il cristianesimo in Occidente potrà rifiorire solo se riusciremo a coinvolgere l’immaginazione dei nostri contemporanei. Credo che l’ateismo rappresenti non tanto una sfida per la nostra intelligenza, quanto piuttosto per la nostra immaginazione».
C’è un ambito dell’immaginazione che si concentra sull’orizzonte del finito, quello terreste come fosse unico ed esclusivo, scartando, a volte, quello dell’immaginazione aperta all’infinito, l’ambito spirituale, trascendente. La fede ‒ che si fa discepola di colui che nell’incarnazione è mediatore di nuova alleanza, vissuta e comunicata attraverso questi due immaginari terrestre e celeste, uniti nel suo spirito, nella sua carne, e narrati nei suoi vangeli, in lui congiunti senza confusione e distinti senza separazione ‒ può allora interfacciarsi all’immaginazione dei nostri contemporanei, per ritrarre nuovamente con loro l’icona del Volto santo in cui si incontrano l’orizzonte e l’immaginario del finito e quello dell’infinito, dell’immanenza e della trascendenza per ritrovare ed annunciare ancora quella bellezza primigenia e futura, Alfa e Omega, che salverà il mondo (Fëdor Dostoevskij).
Così ho provato a immaginare con John Lennon: «Immaginate che non ci sia alcun paradiso/ Se ci provate è facile/ Nessun inferno sotto di noi/ Sopra di noi solo il cielo/ Immaginate tutta le gente/Che vive solo per l’oggi … Si potrebbe dire che io sia un sognatore/ Ma io non sono l’unico/ Spero che un giorno vi unirete a noi/ Ed il mondo sarà come un’unica entità». Lennon stesso ne spiegò il senso affermando che il contesto del brano aveva una valenza “anti-religiosa, anti-nazionalista, anti-convenzionale e anti-capitalista”, e se veniva accettato così universalmente era solo perché era “coperto di zucchero”. Ad ispirare Lennon fu un testo poetico di Yoko Ono: Cloud Piece: “Imagine the clouds dripping/ Immagina le nuvole gocciolanti, scava un buco nel tuo giardino per raccoglierle”. Non si tratta qui di cambiare interpretazione ma di scorgere, come una ferita, un varco possibile tra due universi proprio grazie alle parole poetiche che hanno generato il brano: un passaggio attraverso un “frammento di nuvola”.
Vi ho intravisto la figura di una piccola soglia, sul liminare di un confine che sembra ormai invalicabile. Su quel confine ho immaginato il tendersi e distendersi e il venirsi incontro di due immagini: una gocciolante dall’alto, da nubi di un cielo irraggiungibile; l’altra, figura di mani che scavano uno sprofondo nel giardino dell’umano perché «non ci siano patrie/ Nulla per cui uccidere o morire». E poi quasi subito ho immaginato quelle gocce mutarsi in lacrime e bagnare il giardino dei salmi andando a raccogliersi tutte nella cavità del salmo 56 (55); dove il salmista immagina Dio come un viandante, un nomade che attraversa con lui il deserto del suo dolore e si accorge che al posto della preziosissima acqua tiene raccolte le ancor più preziose, preziosissime, sue lacrime: «I passi del mio vagare tu li hai contati, nel tuo otre raccogli le mie lacrime: non sono forse scritte nel tuo libro? Nell’ora della paura io in te confido».
Credo che anche dall’immagine di una gocciolante nuvola che si perde nel terreno, dissetandolo, si possa scoprire il reale, immaginandolo di nuovo con umiltà e pazienza.
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