Pinocchio: storia di un’iniziazione, fra noir, avventure, incanti e meravigliose fantasia
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di Gian Luigi Zucchini
La cinquantaquattresima edizione della Fiera del libro per ragazzi, che si aprirà a Bologna lunedì 3 aprile, ci sollecita a molte riflessioni sul libro. Ci richiama in particolare a riflettere su un’opera tra le più originali e coinvolgenti scritte nel tempo, ‘Pinocchio’, e sul suo autore Carlo Lorenzini detto Collodi.
Riportiamoci dunque col pensiero al 1890.
La sera del 26 ottobre di quell’anno lo scrittore suonava disperatamente al portone di via Rondinelli 7, a Firenze. stramazzando poco dopo a terra. La morte, avvertita con disperazione poco prima, avvenne, per la rottura di un aneurisma, quasi subito, sulla soglia di casa sua, dove viveva, spesso barricandosi dietro la porta per un timore quasi nevrotico dei ladri. Da pochi anni aveva concluso il suo capolavoro: l’incredibile storia di un burattino di nome Pinocchio, che sarebbe diventato uno dei libri più importanti per i ragazzi e che pure gli adulti, in seguito, avrebbero letto con interesse critico e stupita ammirazione. E fu proprio quella storia, iniziata quasi di malavoglia (si disse per soddisfare debiti di gioco), che gli diede fama e lo collocò tra gli scrittori in prosa più originali del nostro Ottocento.
Poiché Lorenzini era già abbastanza noto come autore di libri per ragazzi, Ferdinando Martini, che dirigeva il ‘Giornale per i bambini’, gli chiese di scrivere un racconto a puntate. Così, il 7 luglio 1881, cominciò a uscire la storia di Pinocchio, una specie di ‘antifiaba’ che inizia con un dialogo tra l’autore e i lettori, e che non comincia nel solito modo, “C’era una volta un re”, bensì “C’era una volta un pezzo di legno”. E da qui prende corpo un racconto dove l’avventura, il mistero, l’ironia, la spigliatezza birichina e corsara del linguaggio e la felicità dell’espressione realistica rendono incalzante un itinerario denso di eventi e di straordinarie vicissitudini.
Pinocchio comincia da subito un percorso di iniziazione e si avventura spregiudicatamente in rischiose disubbidienze, nel furore di una libertà che non accetta controlli, e che poi i fatti e gli eventi modereranno via via fino al raggiungimento di una saggezza conquistata e consapevole.
Il racconto si interruppe con la puntata uscita il 27 ottobre 1881, o meglio, doveva essere concluso lì, poiché Pinocchio, inseguito dagli assassini, viene poi raggiunto e impiccato a un albero, dopo una corsa affannosa che dura quasi l’intera notte. E’ un rapido racconto del terrore, con cui il noir tipico dei romanzi d’appendice viene applicato alla storia: la notte è tempestosa, soffia un vento violento, gemono i rami folti del bosco. Pinocchio vede in lontananza una casina bianca, spera nella salvezza, ma la bambina dai capelli turchini, che finalmente dopo molto affannoso picchiare alla porta, appare dietro una finestra, non vuole o non fa in tempo ad aprire e a salvarlo.
Sembrerebbe così concludersi, in modo drammatico, la storia del burattino.
Invece riprese dopo pochi mesi, dal 16 febbraio al giugno 1882, poi dal 3 novembre al 25 gennaio 1883. La ripresa del racconto è un’esplosione del fiabesco, un’immersione grandiosa nell’immaginario. Mentre nella prima parte le storie erano vivacizzate entro una realtà domestica e quotidiana (la casa di Geppetto, il borgo, l’Osteria del Gambero Rosso, la campagna toscana con piovaschi e le nevicate dell’inverno…) ora la fantasia si dilata al massimo. Appare una carrozza “color dell’aria”, entrano in scena picchi, corvi, una lumaca bianca, una Civetta, un Grillo Parlante e, nella sua giovanile bellezza, la Fata dai Capelli Turchini, figura emblematica della Grande Madre terrena e celeste, espressa nel romanzo con le molte forme e figure possibili – l’industriosa donnina dell’Isola delle Api, la capretta dal pelo turchino, la malata nel letto d’ospedale, la signora col medaglione, la bambina della piccola casa bianca, la donna severa e dolce che cura Pinocchio malato – quasi a voler esprimere, attraverso i molti volti salvifici e amorevoli, la figura materna che Lorenzini amò con affetto quasi edipico, in una forma che psicologicamente potrebbe definirsi non priva di nevrotica morbosità; tanto che assunse poi come pseudonimo il nome di Collodi, il paese toscano in cui la madre era nata.
Tuttavia lo scrittore aggiunge, a questo aspetto che coinvolge particolarmente il bambino, anche un altro elemento, che prefigura la realtà adulta, la vita sociale non soltanto nella sua epoca, ma in tutti i tempi: l’egoismo e la sordida avarizia, l’ingiustizia prevalente anche là dove si dovrebbe amministrare la legge (emblematico il processo in cui Pinocchio, che è vittima, viene condannato mentre i colpevoli la fanno franca), i viscidi e malvagi comportamenti di certi personaggi, come l’Omino di Burro, che conduce i bambini nel Paese dei Balocchi, e che richiama altre tenebrose e orrende figure del feuilleton francese, come per esempio il ‘maestro di scuola’ ne ‘I misteri di Parigi’ di Sue, che Collodi tentò anche di riprendere in chiave italiana, nel mediocre romanzo ‘I misteri di Firenze’ del 1857.
E in questo, cioè nel calare con graffiante ironia la storia nella quotidiana contradditorietà dell’uomo e della società, sta anche l’importanza di questo libro, e di un autore che ha saputo giocare a tutto campo con la vita affrontandone gli aspetti, senza però farli uscire da quell’ambito incantato e lieve in cui l’avventura e la fantasia riuscirono e riescono a sedurre i ragazzi di ogni parte del mondo.
La conclusione, che sembrerebbe troppo edulcorata e improntata a un ‘lieto fine’ molto conformistico e tipicamente ‘borghese’, a ben riflettere non è propriamente così: mi pare che, analizzando bene, l’autore abbia voluto dimostrare che la vita, nel suo evolversi, travolge necessariamente la fantasia rapinosa dell’infanzia, e che la storia di un’iniziazione, quale che essa sia, deve poi concludersi con un adeguamento alla realtà. Così scompare la fiaba e il benefico regno in cui essa sopravvive alla storia ed entra definitivamente nel mito, in un tempo che non esiste ma è eterno, in un luogo sempre immaginato e irraggiungibile, una specie di Nirvana, come la casina bianca della bella bambina dai capelli turchini, o come la fata, che nel racconto scompare definitivamente e non si sa più dove sia andata, o se esista ancora oppure no.
È certo però che nella vita di Pinocchio, come in quella di tutti, dopo l’iniziazione, dopo l’infanzia, essa non apparirà mai più se non nel sogno o, come dice il Pascoli, nel recondito mondo del ‘fanciullino’, dentro di noi.
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