Mi guardavo attorno, dalla nebbia bagnata sbucavano, sferragliando e cigolando sulle rotaie, i tranvai: significava che la vita era ripresa nella mia città d’adozione, così diversa da quella lenta dov’ero nato, qui ognuno aveva una meta da raggiungere il più in fretta possibile. Il ragazzo con il cabaret delle brioches, o meglio, delle ‘ofelle’, sgambettava veloce per raggiungere il bar dove, ogni mattina, il vecchio che leggeva il giornale seduto a un tavolino, lo guardava e immancabilmente dava voce alla sua corsa: “ti, pirlèta, porta una pasta, ma senza crema, che la fa mal, t’è capì? ufelè fa el to mestè.”
Insomma, mi guardai attorno e mi dissi: “siamo a Milano”. Avevo appuntamento quella mattina con un signore che conoscevo di fama, un personaggio che mi intimidiva e, insieme, m’incuriosiva: Simon Wiesenthal. Due anni prima aveva individuato e fatto arrestare in Argentina il famigerato Eichmann, l’uomo che aveva inventato e gestito, con l’ordine di un buon imprenditore, i campi di sterminio, tra le sue mani insanguinate erano passati milioni di ebrei e di antifascisti. Quasi tutti morti, ma sempre con il proprio numero tatuato sul braccio.
Simon Wiesenthal era venuto a Milano per presentare quello che sarebbe diventato un grande best- seller, ‘Gli assassini sono tra noi’. Raggiunsi il luogo dell’appuntamento, una camera di uno squallido appartamento nell’ex ghetto milanese, una scrivania e un armadio pieno di scartoffie. Era stimolante il vecchio Wiesenthal, anche se non parlava molto, pensai che mi sarei dovuto inventare una parte dell’intervista. Mi disse della sua prigionia nel campo di Mauthausen, delle sofferenze, della morte di tante persone, che venivano prelevate e non tornavano più. Io sentivo il groppo in gola ingrossarsi e non riuscivo a inghiottirlo, fu in quei momenti che ricordai un documentario visto al cinema-teatro Ristori subito dopo la guerra. Quando la mamma disse “bambini andiamo al cinema” fu una festa: dopo tre anni si tornava alla vita, allo spettacolo, al divertimento. Ci sedemmo nelle poltrone di prima galleria e aspettammo con ansia l’inizio, ma prima c’era un documentario sulle truppe alleate che aprivano le porte del campo di sterminio di Mauthausen: centinaia, migliaia, di cadaveri nudi, sembravano stracci, erano stati donne e uomini, avevano amato, sperato, sofferto. Morti ammazzati, torturati, gasati. Fuggimmo, per la prima volta comprendemmo che cosa era stata la guerra. Non dormii per diverse notti e ora, pensavo, avevo davanti a me uno di quegli esseri che soltanto il caso aveva preservato.
Wiesenthal mise le mani tra i pacchi di libri sulla sua scrivania, ne trasse uno e me lo porse, era ‘Gli assassini sono tra noi’. Poi spiegò che era a Milano soprattutto per rintracciare uno dei più stretti collaboratori del dottor Mengele, il famigerato medico vicinissimo a Hitler, quello che faceva esperimenti obbrobriosi sui bambini dei lager. Il suo obiettivo si chiamava Rajakovitz e a Milano aveva fondato una società di import-export, la Raja in viale Maino, la circonvallazione interna che di notte si riempiva di puttane e di magnaccia. Quando però giungemmo negli uffici della Raja, qualcuno ci aveva preceduto e gli armadi erano stati ripuliti. Non soltanto gli assassini sono tra noi, anche le spie. Di Rajakovitz non si è mai più avuta notizia. Sparito, assorbito da questa società complice.
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Gian Pietro Testa
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