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Ferrara film corto festival

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Una vita passata a scrutare nei fatti e nel cervello della gente – gente per lo più sconosciuta, personaggi che mai avrei incontrato se avessi fatto un mestiere diverso, non il giornalista voglio dire – insegna quantomeno a rispettare gli altri, non tutti gli altri, ma tanti che sarebbero rimasti fantasmi se avessi fatto un lavoro vero, che so visibile, mica il cacciatore di farfalle o, peggio, di ombre.
Ecco, le ombre che il giornalismo mi ha lasciato dentro si muovono sconsideratamente come i burattini. Ricordo che una volta andai a intervistare un famoso burattinaio, aveva comprato un cascinale con annesso fienile nelle campagne reggiane, dove ricoverare finite le recite i suoi attori dalle teste di legno. Era un giorno ventoso di primavera, cielo terso, poche nubi veloci sul mio capo, i burattini, centinaia, erano appesi alle pareti e a robuste corde tese da parete a parete e danzavano nel vento che spazzava il camerone, assurdi, inquietanti attori della nostra vita, visi stralunati, occhi fissi sul nulla, si muovevano tutti insieme a un ritmo preciso dettato dalle folate. Per me sono diventati un simbolo, quei pupazzi struggenti, di un’umanità smarrita, nella mia testa continuano a danzare silenziosi e hanno nomi di persone scomparse, morte, ma sempre vive nella mia mente, confesso, un po’ sconvolta: sono il re, la regina, il diavolo, la guardia, la maga, la fata, Fagiolino, Sandrone, immancabili personaggi delle commedie dei teatrini, i nanetti, Biancaneve… la mia vita.
Ma le fiabe che raccontavano sono cambiate, sono rimaste, dicevo, le ombre e quasi tutte narrano storie drammatiche, quando non tragiche: una di queste si riferisce alla strage di Bascapè. Fu la fine del sogno italiano di sedersi al tavolo esclusivo dei padroni del mondo, la fine di Enrico Mattei.

Era un giorno freddo di pioggia, il 27 ottobre del 1962, mi ero vestito da festa, camicia bianca, cravatta, e soprattutto scarpe all’inglese, di pellame rosso con i bucherelli, le avevo comprate da poco e mi erano costate un occhio della testa, una spesa fuori dalle mie possibilità economiche come sempre scarse. Insomma, mi ero messo elegante, dovevo andare per la prima volta alla Scala di Milano, ma non ricordo se era un’opera che mi aspettava, oppure un balletto di Nureiev. Ero già pronto e profumato. Suonò il telefono. Non poteva che essere una maledizione.
Lavoravo all’Agenzia Giornalistica Italia, Agi, voluta da Enrico Mattei, concorrente diretta dell’Ansa, ma per certi versi più importante, soprattutto all’estero, nel terzo mondo, specie in Africa dove l’Eni aveva molti interessi e molti altri aveva da concludere, sempre sostenuta dai giornali e, appunto, dall’Agenzia. Quello costruito da Mattei era un colosso dell’informazione, a Milano aveva fondato un quotidiano: si chiamava ‘Stasera’ e doveva essere il vero concorrente del ‘Corriere d’Informazione’, de ‘La Notte’ e del ‘Corriere Lombardo’. Questi ultimi due quotidiani del pomeriggio del cementiere Pesenti: allora si leggeva, la televisione faceva fatica a mettere in onda un telegiornale, o due, al giorno. La direzione di ‘Stasera’ fu affidata a un giornalista famoso, Mario Melloni, il più noto corsivista italiano con il nome di Fortebraccio: era stato democristiano, poi si era ravveduto, si era iscritto al Partito comunista, diventando il più acerrimo nemico della Destra. Le sue feroci battute erano in grado di ridicolizzare un politico, come quella volta che disse del segretario di una forza politica di centro, elegante, distinto ma con pochi capelli, “un uomo dalla fronte inutilmente alta”. Insomma, nel cielo italiano era spuntata una nuova e più lucente stella, troppo lucente, feriva gli occhi ai politicanti abituati a guardare il pavimento. Il governo allora era retto da tre figuri, chiamati anche la Santissima trinità: Amintore Fanfani, il piccoletto presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, ministro della Difesa, Emilio Taviani agli Interni. Sotto di loro passò la storia più tragica dell’Italia.

MATTEI
Enrico Mattei

Al telefono la voce affannata del mio capo mi informò che l’aereo dell’Eni su cui viaggiava Mattei con un giornalista americano, era scomparso, stava per atterrare a Linate, proveniente dalla Sicilia, ma d’improvviso la voce della radio di bordo aveva taciuto. “Pare che sia caduto vicino a Bascapè, corri a vedere”. “Ma dov’è Bascapè?”, chiesi. Risposta: “Vicino all’aeroporto”. In redazione non sapevano altro.
Così partii con la mia Cinquecento alla ricerca di Bascapè, dell’aereo e del mio presidente Enrico Mattei. Era notte, La marcita di Bascapè era veramente una marcita, i campi erano coperti da mezzo metro e più d’acqua, quando finalmente vidi davanti a me la notte squarciata dalle luci di fari. Mi avvicinai ancor più, trovai da posteggiare sotto un albero, mi infilai nell’acqua, che mi sembrò calda e ci restai per alcune ore. Raggiunsi il luogo dov’erano radunati i mezzi di soccorso e mi si presentò davanti una scena indimenticabile: in piedi sul predellino dell’auto del Corrierone un collega alto due metri arringava la notte, con quanta voce aveva in corpo, ed era tanta, “e dì in redazione che voglio la mia firma in prima pagina… digli a quello stronzo che voglio la firma in prima pagina. Capito?” Il collega, a cui era indirizzato l’appello, parve non ascoltare e si dileguò nella notte. Lo seguii e raggiungemmo i primi mezzi dei pompieri. Si faceva fatica a stare in piedi e camminare, ogni tanto si precipitava e l’acqua arrivava al petto, addio vestito, addio scarpe con i bucherelli, addio tutto. A un certo punto, risalendo dal fosso, sentii il mio piede destro scivolare, guardai a terra e mi accorsi che avevo appena pestato un cervello. Chiamai i vigili del fuoco. Credo che non fosse mai successo a una persona di calpestare impunemente il cervello di un uomo così potente. Successivamente pensai che quella notte forse era stato il momento nel quale si era compiuto un golpe e si chiudeva per un paese la possibilità di cambiare e diventare una nazione moderna.

Non si è mai cercato il colpevole, ma parlare di colpo di stato non è azzardato. Morto Enrico Mattei, l’Eni fu rapidamente ridimensionata: chiusi gli uffici all’estero, licenziamenti in serie, chiusi agenzie giornalistiche e quotidiani. Il sogno del vecchio partigiano Mattei fu rimesso in un cassetto, dove fu chiuso a chiave, l’Italia è questa.

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Gian Pietro Testa


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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