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Perdersi nello spazio

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Era il 1969 e avevo cinque anni.
Ero troppo piccolo per capire cosa volesse dire vivere in quell’anno, probabilmente nemmeno mio padre lo sapeva, probabilmente nessuno. Ma dopo lo capimmo tutti quanti, io compreso.
Quell’anno la contestazione giovanile iniziata nel gennaio del ‘68 si allargò a macchia d’olio in tutto l’Occidente. Quell’anno fu l’anno di Woodstock e della rivoluzione non violenta della cultura hippie. Quell’anno un uomo posò piede sulla Luna, e quell’anno David Bowie scrisse una canzone che parlava proprio di quello: di un uomo nello spazio!
La cosa curiosa fu che il disco uscì appena qualche giorno prima dell’allunaggio di Armstrong e soci…

Cosa c’è di più sublime di perdersi nello spazio? Le note della canzone mi accompagnano oggi, come sempre, nei miei viaggi interstellari. E non occorrono complicate e costose astronavi, basta chiudere gli occhi e si apre il sipario del buio cosmico, infinitamente grande come può essere un desiderio, un sogno ricorrente. Il mio è sempre stato questo: partire!
Partire per andare dove? No… nello spazio l’importante non è arrivare. L’importante è perdersi per poi farne parte, una minuscola parte d’infinito. E voltarsi indietro e vedere la Terra rimpicciolire: una splendida sfera azzurra nel nero più assoluto, sempre più piccola e sempre più bella.
Finché il puntino blu scomparirà per sempre dalla vista… un’ultima scintilla di luce persa nelle lacrime.

Space Oddity (David Bowie, 1969)

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Carlo Tassi

Ferrarese classe 1964, disegna e scrive per dare un senso alla sua vita. Adora i fumetti, la musica prog e gli animali non necessariamente in quest’ordine. S’iscrive ad Architettura però non si laurea, si laurea invece in Lettere e diventa umanista suo malgrado. Non ama la politica perché detesta le bugie. Autore e vignettista freelance su Ferraraitalia, oggi collabora e si diverte come redattore nel quotidiano online Periscopio. Ha scritto il suo primo libro tardi, ma ha intenzione di scriverne altri. https://www.carlotassiautore.altervista.org/

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PAESE REALE
di Piermaria Romani

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)