Se ci sono bambini educati all’odio, ce ne devono essere altri educati all’amore e al perdono. E quale migliore scuola si potrebbe immaginare per i nostri figli? (“Il giardino persiano”, Chiara Mezzalama)
Iran 1981, Teheran e Farmanieh, un giardino blindato, una casa celeste, una famiglia come non ce ne sono tante, fatta di un ambasciatore, quello italiano (Francesco), la moglie Elena e i due giovani figli Chiara e Paolo. Il padre della protagonista Chiara, che è la stessa autrice, viene mandato a Teheran nell’estate 1981, il difficile periodo di un paese stravolto dalla rivoluzione islamica dell’Ayatollah Khomeini, dalla crisi degli ostaggi americani, da un buio terrore, dalla povertà e dalla guerra con l’Iraq. Dalle vipere.
Lo sguardo sul paese è quello dell’infanzia (Chiara ha 9 anni e il fratello Paolo 6), quello di due bambini che giocano, con candore e spensieratezza, in un giardino quasi magico e segreto, quello della residenza estiva del diplomatico, a Farmeniah, ridata a nuova vita dalla moglie Elena. Una campagna dove il rumore delle bombe e degli spari fa comunque da sottofondo a notti che sono tutt’altro che tranquille. Il candore dei ragazzini, che vanno a caccia di lucertole fra le erbacce, accompagnati dal cane Moretto, fra leggere fontane e profumati alberi di melograno, fa tenerezza, una dolcezza e spensieratezza infantili che cercano di rassicurare (ogni lettore ci prova, sicuramente) ma che fanno anche da contorno a un mondo impregnato di violenza, incomprensioni, proibizioni, punizioni, morte, impossibilità di vedere il di fuori, quello che sta aldilà del muro, che affascina ma che fa anche tanta paura. In un paese di antiche storie e belle tradizioni (il padre alla sera legge loro antiche fiabe persiane), il gioco assorbe completamente, mentre Chiara legge sotto il fresco patio, soprattutto autori francesi. Quella lettura, che in quel momento era un potente antidoto contro la noia e l’isolamento forzati, avrebbe incubato la sua vocazione (oggi Chiara è scrittrice e vive a Parigi).
Solo qualche diversivo era ogni tanto permesso, con tutte le cautele del caso (scorte, macchine blindate e stretta sorveglianza): la visita al Gran Bazar con il suo odore di carni, di spezie e di stoffe (colori e odori di tali posti non possono non rimanere negli occhi e nel naso, non dimentico la medina di Tripoli o il suk di Damasco), in un tripudio di ori, tesori, pietre preziose e gioielli che ricordano la caverna di Ali Babà. Con il cortese signor Mozarafià, che invita a gustare una bella tazza di tè davanti a meravigliosi turchesi avvolti in un giornale, che ricordano il colore degli occhi dell’ambasciatrice (la moglie Elena, bella ed elegante, costretta anch’essa a velarsi il capo, è bionda con splendidi occhi azzurri). Oppure la scappata al forno, con la tata Lita, immersi dall’odore dei tre tipi di pane che lì si preparavano, caldi, bollenti, deliziosi. Solo profumo di pane e di farina, la guerra lì non aveva odore. Ci sono anche Jafar, Azadeh, il portiere Bujuk, con il figlio pasdaran, Zora, Hakimé. Tutti ruotano intorno alla vita di quella famiglia che cerca di vivere normalmente.
Elena soffre, si ricorda il suo passato trascorso in Africa come infermiera della Croce Rossa, si sente impotente davanti a tanti bambini che lasciano questo mondo a causa della guerra, quella guerra che lì, come altrove, non perdona e non guarda in faccia nessuno. Anche Chiara comprende, ma è ancora abbastanza giovane da provare a guardare altrove. E poi, nel giardino fatato, c’è l’incontro con Massoud, l’amichetto coetaneo dai vestiti logori, che si arrampica impavido sul muro della villa e arriva dall’esterno, con la sua dolcezza, la sua vita, la sua polvere, la sua povertà e la sua storia. Uno scambio di maglietta arancione, una complicità legata alla scoperta di una gatta con i gattini e l’amicizia supera ogni ostacolo, ogni divisione, ogni differenza, ogni religione, ogni diffidenza, ogni confine, ogni barriera, ogni pregiudizio, ogni tempo, ogni malinconia. Mangiucchiando fichi, mandorle e pistacchi, in quelle che tutti chiamavano la casa celeste. L’azzurro è riposante, tranquillizzante, come il cielo abbraccia e fa sparire ogni paura.
Ma come sempre accade, arriva il momento di andarsene, perché nonostante gli sforzi e l’impegno, il mondo esterno è diventato davvero troppo pericoloso. E allora Elena, Chiara e Paolo devono rientrare a Roma, lasciando il padre a coprire da solo il suo difficile incarico istituzionale. Il rientro è difficile, per quello che si è visto, per quelli che si sono lasciati là, da Moretto a Massoud, per quanto non si potrà mai dimenticare, inclusa, soprattutto, la libertà dorata di quel giardino che permetteva di andarsene in giro a piedi nudi e non chiedeva di capire le scuole, gli alunni viziati e il rumoroso caos cittadino.
Come si poteva pensare ai cinema e ai divertimenti quando si era toccata l’anima amara della guerra? Come si poteva vivere normalmente? Quando si vive in paesi con storie difficili non si torna mai gli stessi. Si ritorna cambiati, irrimediabilmente diversi. Ammetto di saperne qualcosa, ammetto che le priorità diventano altre, che si capiscono a fatica i litigi, le rimostranze e i bisogni dei coetanei. Non si è migliori, nessun giudizio, ma si dà importanza a cose diverse. Semplicemente. Per questo Chiara, l’anno successivo, d’estate, sarebbe tornata a Teheran, a trovare il padre, in luogo che molti amici italiani nemmeno conoscevano sul mappamondo. Quel giardino all’ombra delle sirene del coprifuoco l’aveva plasmata, lei era cambiata, fino ad oggi, lo sarebbe stata per sempre. Il grande poeta Ferdowsi vegliava su di lei, dalla piazza romana a lui dedicata.
Chiara Mezzalama, Il giardino persiano, edizioni e/o, 2015, 192 p.
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Simonetta Sandri
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