Spesso gli insegnanti, a tutti i livelli di istruzione si lamentano del fatto che i bambini, gli adolescenti, i giovani non sanno più nulla, cercano scorciatoie per superare un compito, non hanno voglia di fare fatica e sembrano pochissimo interessati a qualcosa che non sia il semplice risultato per l’esame. Per lo più questa riflessione viene da insegnanti che hanno vissuto alle origini, come studenti, l’inizio di questa scivolosa china e che, dopo più di un trentennio, ne subiscono, dall’altra parte della cattedra, le rovinose conseguenze.
La scuola facile allora – mi riferisco ai primi anni Settanta – era considerata una condizione della democrazia, quando si pensava che solo riducendo la difficoltà, fosse possibile ai ragazzi provenienti da famiglie culturalmente deprivate, raggiungere traguardi di istruzione un tempo appannaggio della classe borghese. A distanza di decenni, è necessario riflettere sul fraintendimento all’origine dell’errore per porvi rimedio.
Perché la scuola facile non è utile a chi la frequenta? Semplice: perché riduce le capacità. Vi sono molte ragioni, che andrebbero declinate rispetto ad ogni livello del processo formativo. Nelle scuole elementari la facilità (che in questo caso si traduce nell’enfasi sulla spontaneità e la creatività) non abitua all’ordine che è necessario per ogni risultato, nelle scuole medie e superiori non insegna il rigore delle argomentazioni, l’esigenza di solide fondamenta per qualunque vocazione, la necessità di confrontarsi con il passato. All’università la scorciatoia ferale è l’idea che solo ciò che è immediatamente utile possa favorire il mitico “ingresso nel mercato del lavoro”, espressione ormai ammantata di fastidiosa retorica e di pelosa falsità.
Non è corretto attribuire la colpa alla svogliatezza degli studenti. La svalutazione della cultura umanistica, come della ricerca scientifica di base, del valore della scrittura hanno origini lontane. L’assoluto fastidio per ciò che non è “utile” alle competenze ha ristretto la testa di intere generazioni di ministri prima che di studenti.
Il punto è che tutto ciò nuoce ai giovani proprio rispetto alla possibilità di raggiungere un buon lavoro. Il mercato del lavoro attuale, e ancor più quello futuro, sarà sempre più competitivo, togliendo qualunque speranza che il titolo di studio sia sufficiente per avere un’occupazione decente. Solo i migliori ce la faranno. E i migliori saranno quelli che hanno studiato di più e che hanno accettato sfide difficili. Sarebbe indispensabile, per invertire la deriva, una discussione onesta sulla mistificazione che ne sta all’origine: l’idea che in una società di massa l’inclusione avvenga per diritto, abbassando la soglia di ingresso piuttosto che innalzando la qualità per superare privilegi di posizione sociale.
Maura Franchi – Laureata in Sociologia e in Scienze dell’educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing e Web Storytelling, Marketing del prodotto tipico. I principali temi di ricerca riguardano i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.
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Maura Franchi
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