Fare sciopero non è come fare fuoco ai tempi del liceo e andare al parco Massari all’insaputa dei genitori. Non è come mettersi in mutua per scantinare dal lavoro.
Non siamo né in permesso retribuito né in ferie. Certo lo so, non sono io la persona adatta a tessere una filippica sul diritto di sciopero e sulla lotta, non ne ho la patente, da impiegato, quale sono, spesso al calduccio dell’ufficio sono stato poco con gli operai in piazza, mi mancano ore di astensione volontaria dal lavoro per mantenere i miei e i nostri diritti per avere la capacità di fare una lezione a chicchessia.
Io sono però della FIOM e spesso non è facile esserlo. Non sono più un operaio dal ’94 ma mai ho smesso di pensare come loro.
L’impiegato, in impresa e in cantiere, non ha una categoria, non ha una comune, sempre e perennemente fuori luogo. La tessera del tuo sindacato, spesso, ti fa percepire dal gruppo dirigente come un attivista, un rompiballe, al contempo gli operai ti vedono come uno che sta col culo al caldo, non come loro che ghiaccio o afa combattono con gli impianti, i tubi, i torni e i trapani.
Lungi da ma fare il piagnone o l’anima bella. Ognuno sussurra alla propria coscienza, e nessuno può permettersi di giudicare gli altri:: prima devi camminare cento passi con le scarpe del tuo vicino, dicevano i nativi americani. Ma lo sciopero è uno strumento, forse l’unico che abbiamo, per far sentire al padronato che noi esistiamo e non siamo un anello della catena. Siamo una puleggia e un pignone, siamo quelli che non si sono mai fermati, nelle fabbriche, nei supermercati, nelle officine, nei campi, anche se non siamo stati in prima linea come i medici, gli infermieri e gli inservienti.
Gli insegnanti e il personale ausiliario hanno tenuto in piedi la scuola, una istituzione, anzi, ‘L’Istituzione’, che è la conditio sine qua non per la democrazia, il fondamento su cui si basa il nostro futuro.
I metalmeccanici hanno tenuto insieme il sistema produttivo, hanno dato da mangiare allo squalo. Lo sciopero noi lo paghiamo, non è gratis, a una giornata in meno in busta paga non si rinuncia a cuor leggero. Lo sciopero generale del 16 dicembre è una presa di coscienza, è un grido, un urlo di Munch, contro una politica che ci vuole esecutori.
Tutto l’arco parlamentare, a parte una piccolissima e sparuta minoranza, è contraria, dalla finta opposizione della Meloni, alla finta sinistra di Renzi e Letta, dal ventriloquo del popolo Salvini, agli ‘oltristi’ 5 Stelle.
Continuano a dire: “Non è opportuno, non è il momento, stiamo uniti, resilienza…”. Ma che cazzo vuol dire poi resilienza, non siamo mica delle barre d’acciaio, com’è che utilizziamo termini ad minchiam solo perché vanno di moda?
Attenzione, mica sono tra quelli che si sono scoperti Che Guevara e combattano contro il Pass verde con la spocchia di chi ha studiato all’università della strada, oppure ha sposato le idee di una minoranza rumorosa che lotta contro il male. Ma che poi perde nelle terapie intensive.
Certo che il sindacato ha le sue colpe.
Vero altresì che non è più quello di mio padre, ma un conto sono le persone, il delegato, il consiglio di fabbrica, il funzionario e il dirigente, un conto è l’istituzione.
In nome e per conto del sindacato, in centovent’anni di storia i morti sono un numero incalcolabile, le piazze grondano ancora del sangue di Portella della Ginestra, di piazza della Loggia, di Reggio Emilia e di tante altre.
Guido Rossa era uno di noi, I tre morti al giorno sul lavoro sono nostri compagni. I precari, gli sfruttati, i braccianti al nero siamo noi. Anche i giovani laureati, senza presente e senza futuro. Le mie figlie, tutti i bambini a cui abbiamo rubato la speranza.
Certo che la mia è una generazione di merda, ha lottato poco, ha smesso di pensare al noi, la bandiera rossa l’ha buttata nel fosso (cit.). Sicuro che esistono altre categorie parimenti in difficoltà, gli artigiani, i commercianti, le piccole partite Iva. Questo sciopero è anche per loro che non possono scioperare, perché sono il datore di lavoro di loro stessi.
E’ ora di finirla con il sezionare il capello in quattro, con la perenne ricerca delle differenze, cerchiamo ciò che unisce.
Il governo dei migliori, dove l’opposizione è sparita nel mucchio della supermaggioranza, dove il centrismo dilaga come una fossa biologica, dove una ex sinistra legifera con una destra medioevale. Dove sì, il Comandante in capo è persona delle istituzioni, ma con un chiaro e limpido orientamento, espressione di una élite meritocratica (forse) che sta dalla parte del privato e non del pubblico, delle banche e non dei correntisti, dei padroni e non degli operai.
Ma questo è ciò che esprime l’Italia odierna, uno stato che ha subappaltato il governo, per chiara e lampante incompetenza della politica, dove non esiste nulla di nuovo, dove le uniche novità sono rappresentate dai gattopardi che si strusciano contro i banchi dell’emiciclo.
Penso a voi ben altristi, voi che criticate il sindacato senza mai averlo conosciuto. Capisco bene le critiche di chi, in un consiglio di fabbrica ci ha messo piede e magari ne è uscito pure disgustato, ma voi che insaccate tutto nel cesto del “sono tutti uguali”, vi nutrite di frasi fatte e slogan, Voi, che c’azzeccate con noi?
Faccio sciopero, lo faccio per me, ma prima ancora per le mie figlie, lo faccio per chi non può farlo, lo faccio per chi è ricattato, lo faccio per l’alienato, lo faccio per chi è in cassa integrazione, lo faccio per chi il lavoro non ce l’ha, per il pensionato e la casalinga, lo faccio per chi paga le tasse, per chi ha il mutuo e le bollette, per gli studenti.
Lo faccio per mio padre e mia madre, che quando sono nato avevano mille lire in banca, lui operaio e delegato, lei impiegata precaria pagata a pratica. Lo faccio per me che nelle case dell’Ente Autonomo ci ha passato l’adolescenza a casa dai nonni. Lo faccio per mia bisnonna Teresina.
Chi ha tanto paghi tanto, chi ha poco paghi poco e chi ha nulla paghi nulla, diceva un vero patriota, senza dimenticare che 120 miliardi di evasione fiscale sono una follia, una cifra che se giustamente redistribuita potrebbe fare entrare l’Italia in Scandinavia.
Difficile credere nei valori, nelle tradizioni, nel concetto di democrazia occidentale, quando gli stipendi sono fermi da venti anni, quando in pensione ci si va da morti, quando per colpa di qualcuno le generazioni di oggi lavorano sui ponteggi fino a settanta anni, scavano e spicconano fino alla fine delle forze, insegnano fino alla secchezza mentale, saldano e sbullonano fino all’oblio.
Ecco perché io oggi sciopero, non per voi che non ci credete, ma per tutti gli altri.
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Cristiano Mazzoni
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