La letteratura italiana dell’emigrazione ci porta alla riscoperta delle nostre origini e delle dolorose condizioni di vita dei nostri connazionali emigrati in altri Paesi a inizio del secolo scorso. Capire attraverso pagine dimenticate come i nostri italiani hanno vissuto da emigranti aiuta a comprendere cosa vive chi oggi cerca una via d’uscita in una terra chiamata Italia.
La diversità è sempre fonte di grande ricchezza e anche i nostri antenati sono passati per fasi e momenti molto simili a quelli che stanno vivendo molti immigrati di oggi. Scrivere può sicuramente aiutare a capire situazioni e risolvere problemi. Se questo vale sempre, può valere ancor di più quando si arriva in un paese straniero, dove si ha bisogno di integrarsi e buttare sulla carta i propri pensiero e le proprie preoccupazioni.
La letteratura dell’emigrazione, ieri e oggi
Negli ultimi anni, l’Italia e l’Europa sono attraversate da spinte razzistiche e dal rifiorire di rivendicazioni etniche regionali che spesso, attraverso richieste di autonomia, sembrano vanificare tutti gli sforzi compiuti alla ricerca di un’identità europea forte. Un’immigrazione incontrollata legata a fenomeni di crisi mondiali non sta certo aiutando. D’altra parte, la realtà dei nostri paesi sembra andare in direzione opposta: i flussi migratori continui mettono ciascuno di noi di fronte a una realtà multiculturale e, quindi, a un “meticciato” vero e proprio. I pareri sono discordi, non solo fra gli intellettuali, ma anche fra i politici e la gente comune: in generale si oscilla fra coloro che cercano di imporre un’assimilazione dei nuovi gruppi etnici alla cultura popolare dei paesi ‘ospiti’ e coloro che, spesso a ragion veduta, propongono un interessante e costruttivo ‘meticciato culturale’, ossia di “creolizzare l’Europa”. Una ‘creolizzazione’ che nasca dall’incontro di realtà differenti e che possa garantire un dialogo e un confronto fra culture. Inutile dire che, intellettualmente, questa pare la soluzione migliore, anche se di non facile realizzazione, richiedendo un’apertura mentale spesso inesistente in paesi abituati, come il nostro, a essere terra di emigrati e non di immigrati.
In tale ottica di apertura, Armando Gnisci, docente di letterature comparate, ha iniziato a interessarsi di letteratura della migrazione fin dal 1991, di una letteratura veicolo della voce dei popoli e dei migranti che, talora, si può essere più disposti ad ascoltare rispetto ai racconti per le strade. Gnisci fa conoscere in Italia ciò che in altri paesi già esiste da tempo: si pensi a Salman Rushdie in Inghilterra o a Tahar Ben Jelloun in Francia. In questi casi siamo nel quadro di un’eredità di passato coloniale, la situazione italiana è particolare e originale, proprio per la mancanza di una significativa storia coloniale. Lo scrivere in italiano nasce dunque da un elemento affettivo, da un vero e proprio amore, oltre che dalla curiosità, per la lingua di Dante, che nulla hanno a che vedere con eventuali retaggi passati. Pura passione.
Con il termine ‘migrant writer’ si indica generalmente la produzione letteraria di scrittori stranieri che hanno scelto di esprimersi nella lingua del Paese “ospitante”, ma secondo Gnisci la letteratura della migrazione comprende tanto le opere scritte in italiano da immigrati quanto quelle di italiani emigrati in tutto il mondo. C’è anche chi, come Raffaele Taddeo, preferisce parlare di ‘letteratura nascente’ – per la novità e la sua fresca forza eversiva – o di ‘letteratura della creolizzazione’ – per il suo carattere di pluralismo culturale, che diviene lo spazio ove le culture si mescolano e si aprono al confronto e al dialogo. Indipendentemente dal termine che si voglia utilizzare, questa letteratura si caratterizza per i temi, come emarginazione sociale e razzismo, e per alcuni elementi come l’autobiografismo e l’ibridismo linguistico.
In Italia, i primi testi scritti in italiano da immigrati comparsi nelle librerie sono: “Chiamatemi Alì” del marocchino Mohamed Bouchane (Ed. Leonardo), “Immigrato”, del tunisino Salah Methnani (Ed. Thoeria) e “Io, venditore di elefanti” del senegalese Pap Khouma (Ed. Garzanti).In questa prima fase i testi sono scritti a quattro mani, poiché gli autori ancora non padroneggiano perfettamente l’italiano. La seconda fase vede apparire una scrittura femminile. Siamo nel 1993, quando esce “Volevo diventare bianca” dell’algerina Nassera Chohra o nel 1994, anno di “Lontana da Mogadiscio” della somala Shirin Razanali Fazel. Nel 1995 esce la prima edizione del Premio Ek&stra, concorso letterario per immigrati, nel 1996, Maria De Lourdes Jesus, che conduce il programma radiofonico “Permesso di soggiorno”, pubblica l’autobiografico “Racordai. Vengo da un’isola di Capo Verde”. La terza fase si ha nel 2000, quando la Fiera del Libro di Torino organizza incontri sulla nuova dimensione multietnica e multiculturale di un’Europa che si presenta ormai come “un mondo pieno di mondi”. Da qui nasce una nuova fase con successo di pubblico.
Carmine D’Abate, John Fante e Pascal D’Angelo
Se l’Italia accoglie oggi tanti scrittori che, per amore della nostra lingua e per desiderio di comunicare la loro esperienza, si sono cimentati nella produzione letteraria in lingua italiana, esiste anche un’importante letteratura italiana dell’emigrazione, con una sua identità e tradizione, troppo spesso dimenticata. Gilberto Bonalumi dell’Istituto di relazioni internazionali ha detto che “quando i libri di storia verranno riscritti, si scoprirà che la diaspora italiana nel mondo è stata uno degli avvenimenti più significativi del secolo che muore. Il numero degli italiani che operano in ogni angolo della terra supera persino la popolazione attualmente residente in Italia”. Anche Furio Colombo ha sottolineato quanto tale diaspora sia (stata) importante, oltre a quella ebraica, a differenza del popolo ebraico però, l’Italia non si è mai interessata al destino degli italiani che vivono nel mondo e ha sempre percepito questa radice culturale trapiantata all’estero, come un qualcosa di povero, di non significativo, che ha perso la sua origine.
Ora, anche il campo della letteratura dell’emigrazione di lingua italiana o di italiani che si sono espressi nella lingua del Paese ospite è spesso dimenticato, oltre che inesplorato. Molti autori presentano affinità evidenti con gli scrittori che oggi vengono definiti come “migranti” tanto nei temi che nella scrittura. E non si tratta solo di opera aventi carattere di testimonianza di documento, ma di esempi di cultura, di ricerca dell’identità e di opere di grande valore letterario. Si pensi a Carmine Abate, scrittore italiano di origine arberësh, figlio di emigranti e a sua volta con un passato di emigrazione in Germania. Abate spiega di aver iniziato in Germania per combattere contro le ingiustizie dell’immigrazione, denunciandole attraverso poesie e racconti. Le sue opere sono il racconto di tante migrazioni: quella degli albanesi in Italia e quella degli italiani all’estero. Quest’ultima ha lasciato poche tracce nella letteratura, se si escludono opere come “Libera Nos a Malo” di Meneghello. Eppure esiste molta letteratura dell’emigrazione di lingua italiana o di scrittori di origine italiana. Si pensi a italo-americani come Joe Pagano, Pascal D’Angelo, John Fante, Pietro Di Donato, Nino Ricci e Helen Bartolini. “Avendo noi alle spalle una lunga storia di emigrazione – sottolinea Abate – dovremmo essere più solidali con chi viene da fuori. Ma sta proprio qui la spina. Chi viene da fuori ci ricorda troppo chi eravamo, chi erano i nostri padri, i nostri nonni. E noi invece vorremmo dimenticarlo. Forse se riuscissimo a rivalutare la nostra emigrazione e i nostri emigranti, a vederne gli aspetti positivi, il nostro atteggiamento nei confronti degli stranieri in Italia cambierebbe”.
Anche John Fante fa parte di quegli italiani un poco dimenticati, ma che oggi sembra riemergere presso il grande pubblico, anche grazie ad alcune iniziative editoriali di alcuni importanti quotidiani italiani e alla riscoperta da parte di numerosi adepti della scrittura realista.
Fante nasce nel 1909, nell’“Italia dell’America dell’Ovest”, come veniva battezzato il verde Colorado dai primi emigranti italiani che approdavano a queste montagne. E gli italiani che arrivavano in queste terre erano montanari. John Fante con le sue origine abruzzesi (i genitori provenivano da Torricella Peligna) è uno degli scrittori che ha maggiormente contribuito alla diffusione della cultura italo-americana negli Stati Uniti.
Nel 1938, pubblica il suo primo romanzo, “Aspetta primavera, Bandini”, l’anno successivo “Chiedi alla polvere”. Dopo aver lavorato a Hollywood come sceneggiatore, pubblica altri tre romanzi: “Full of Life” (1952), “La Confraternita del Chianti” (1977) e “Sogni di Bunker Hill” (1982). Alla sua morte, avvenuta nel 1983 a Los Angeles, escono “Un anno terribile” e “A ovest di Roma”. Sarà Charles Bukowski a segnalare al grande pubblico dell’ultimo decennio questi “scritti con le viscere e per le viscere, con il cuore e per il cuore…”.
Da non dimenticare poi Pascal D’Angelo, che rappresenta un caso di letteratura della migrazione dimenticata, se non fosse per la riscoperta e la pubblicazione in Italia di “Son of Italy” (Ed. Il Grappolo), nel 1999. D’Angelo, che costituisce un vero fenomeno letterario, nacque a Introdacqua in Abruzzo nel 1894, per sbarcare poi a soli 16 anni a New York, raro caso di italiani immigrato in grado di leggere e scrivere. Impostosi uno studio ferreo dell’inglese, Pascal conobbe Mark Twain, che lo accolse sotto la sua ala protettrice, facendo conoscere il nuovo e giovane autore al pubblico americano. I due inventarono insieme una nuova forma di pubblicità letteraria: misero in scena una vera e propria tournée itinerante e uno spettacolo che desse risalto alle loro opere. Pascal si specializzò nel “Blatherskite” ossia in una specie di parodia di un discorso insensato. Nel 1924, pubblicò l’autobiografico “Pascal D’Angelo: Son of Italy”.
Ma non fu solo lui a scrivere sulla vicenda degli italiani in cammino. Luigi Ventura, nel 1886, scriveva “Peppino”, il primo romanzo sulla diaspora peninsulare. Risale al 1921, “The Soul of an Immigrant” di Constantine Panunzio. Il 1935 è l’anno del “The Grand Gennaro” di Garibaldi Lapolla. E ve ne sono molti altri. D’Angelo resta forse il più memorabile per aver trasformata una poesia autodidatta in una vera opera d’arte realista e toccante e per avere avuto la forza e la bellezza di dire che “quando scende la notte e il lavoro si ferma, badili e picconi restano muti e la mia opera è perduta, perduta per sempre. Se però scriverò dei bei versi, allora quando la notte scende e io poso la penna, la mia opera non andrà perduta. Resterà qui, dove oggi voi potere leggerla… Invece nessuno né oggi né domani leggerà mai quello che ho fatto col badile”. E così è. Oggi leggiamo e rileggiamo le righe di un grande autore che ha saputo descrivere con tanto realismo e pathos la vita e le sofferenze dei nostri migranti. Perché anche noi siamo stati migranti.
Da leggere
John Fante, Un anno terribile, Fazi Tascabili, 2001
Il libro, il più bello di Fante, racconta la storia del giovane Dominic Molise, figlio di un muratore italiano disoccupato, nella città di Roper, Colorado. Il protagonista, alla ricerca di un’occasione di riscatto dalla condizione proletaria della famiglia, incontra tutte le miserie quotidiane della vita di migrante in America, mettendo in scena tutto il mondo italiano qui trapiantato. Pagine toccanti, la storia di un ragazzo che non riuscirà a realizzare il suo sogno, in un Paese freddo e difficile, con un padre povero e incapace di aiutarlo.
Claudio Camarca, Migranti, Verso una terra chiamata Italia, Rizzoli, 2003
Le storie di uomini e donne che ogni giorno, per diverse vie, cercano di entrare in Italia nella speranza ed alla ricerca di una vita migliore e che spesso finiscono in campi profughi o a vivere una vita fatta di clandestinità ed accattonaggio.
Per approfondire
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Simonetta Sandri
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