Pena di morte, fra gli Stati democratici sono rimasti sette i fratelli di sangue
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L’esecuzione di Clayton Lockett, avvenuta nello stato americano dell’Oklahoma il 29 aprile scorso, ha riportato ancora una volta le nostre coscienze a fare i conti la violenza di una pena contraria a qualsiasi idea di umanità, che lede uno dei principi fondamentali su cui si basa la nostra società, il rispetto della vita umana.
Clayton Lockett, un trentottenne afroamericano condannato alla pena capitale nel 1999 per aver sparato a una ragazza di 19 anni e averla poi seppellita viva, è morto dopo un’agonia durata 43 minuti. Il cocktail di farmaci che avrebbe dovuto condurlo alla morte in modo veloce e indolore non ha funzionato, probabilmente a causa della rottura di una vena, e l’uomo è deceduto per arresto cardiaco tra atroci dolori.
Questo evento ha suscitato polemiche nell’opinione pubblica americana e ha riacceso un dibattito che dura da anni, ma che non ha ancora portato a una revisione dei metodi brutali della pena di morte, né della pena di morte stessa.
Nonostante lo stesso presidente Obama abbia definito “disumano” il modo in cui è morto Lockett, e la Casa Bianca abbia sentenziato che l’esecuzione non è stata “all’altezza degli standard del rispetto dei diritti umani”, la pena di morte negli Stati Uniti è sostenuta dalla maggioranza della popolazione e dai leader politici, che si appellano alla volontà popolare. Tuttavia questa maggioranza si sta restringendo, ed è passata dall’80% del 1994 al 60% del 2013. I giovani americani sono meno favorevoli degli anziani alla pena capitale, e i non-bianchi (ispanici, afroamericani e asiatici), che un giorno costituiranno la maggioranza della popolazione, sono solidi oppositori. Sei Stati hanno abolito la pena di morte dal 2007, portando il totale degli abolizionisti a 18 su 50. Il numero delle esecuzioni è comunque in calo: dal 1999, anno in cui sono state effettuate 98 esecuzioni, si è arrivati a 39 nel 2013.
Gli Stati Uniti sono una delle poche democrazie liberali – considerate tali non solo per il sistema politico del Paese, ma anche per l’attenzione ai diritti umani, e per il rispetto dei diritti civili e politici e delle libertà economiche – che continuano ad applicare la pena di morte, insieme a Giappone, Botswana, Taiwan, India, Mongolia e Indonesia.
In tutti il mondo, i Paesi mantenitori della pena capitale sono 40. Di questi, 33 sono paesi dittatoriali, autoritari o illiberali. Secondo gli ultimi dati disponibili, forniti dal rapporto del 2013 sulla pena di morte di Nessuno tocchi Caino, organizzazione non governativa italiana che ha come obiettivo l’attuazione della moratoria universale della pena di morte, e, più in generale, la lotta contro la tortura, nel 2012, in 17 di questi paesi sono state compiute almeno 3.909 esecuzioni, il 98,5% del totale mondiale. L’Asia si conferma il continente dove si pratica la quasi totalità delle esecuzioni nel mondo. Cina, Iran e Iraq mantengono il triste primato di “paesi boia” del 2012, rispettivamente con 3.000 (76% del totale mondiale), 580 e 129 esecuzioni.
L’Europa è un continente libero dalla pena di morte. Solo la Bielorussia continua ad applicarla: nel 2012 tre uomini sono stati giustiziati con l’accusa di omicidio. In questo Paese, che si presenta nominalmente come una repubblica, ma che di fatto è una dittatura, le informazioni sulla pena di morte sono considerate segreto di Stato. I prigionieri sono informati della loro esecuzione solo un momento prima che venga effettuata, e i condannati sono giustiziati con un colpo alla nuca. I corpi sono sepolti in tombe senza nome, in luoghi tenuti segreti alla famiglia e agli amici.
Nel 2013, l’organizzazione non governativa Penal Reform International ha realizzato un sondaggio sulla pena di morte in Bielorussia, dal quale è emerso che l’opinione pubblica è per la maggior parte favorevole alla pena capitale (64%), e che la preoccupazione circa la sicurezza personale sembra essere uno dei motivi principali a sostegno di questa pena; tuttavia, tre quarti degli intervistati ritengono che la condanna di un innocente sia più grave dell’impunità di un colpevole.
Le autorità bielorusse, nonostante abbiano in passato dichiarato che la questione dell’abolizione della pena di morte “rimane aperta”, e che si tratta di una misura “temporanea ed eccezionale”, non hanno intrapreso nessuna azione decisiva volta ad abolire la pena di morte o a stabilire una moratoria legale. Il dibattito, all’interno del governo, ruota esclusivamente intorno alle prospettive di adesione della Bielorussia al Consiglio d’Europa, che pone come condizione l’abolizione della pena capitale.
Di fatto, secondo stime non ufficiali, a partire dal 1991 circa 400 persone sono state giustiziate nello stato ex sovietico.
La strada verso la democrazia, in un Paese chiuso nei confronti dell’Occidente, caratterizzato da una totale subordinazione di tutta la società e dalla mancanza di libertà di parola, appare impervia.
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Francesca Carpanelli
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