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Da Gorino al Monviso in bici in tre giorni tra Natale e Capodanno. Quando lo sport diventa metafora di vita.

di Linda Ceola

Il Monviso è una montagna che spicca dalla pianura con veemenza. Dal suo grembo sgorga il ‘nostro’ Grande Fiume. Non esiste una vallata che ti accompagna dolcemente al suo picco. Affrontarne la salita significa restare subito senza fiato. La scalata ciclistica del ‘Re di Pietra’ mette immediatamente alla prova la tenacia dei ragazzi, che dopo 600 km sulle gambe, inanellati in soli due giorni, devono aggredire una pendenza continuamente crescente da Saluzzo fino al Pian della Regina. Di fronte a loro infine una sbarra, sette gradi sotto zero e un fondo stradale in ombra, perciò ghiacciato. Il saggio Luca Agosti fa desistere il gruppo, intenzionato a spingersi fino al Pian del Re dove il Po, timido, zampilla. L’abbigliamento inadeguato, la temperatura molto rigida e il tramonto imminente avrebbero reso la discesa pericolosa, dato il manto stradale poco visibile e scivoloso.
Termina così nel pomeriggio del 29 dicembre l’impresa ciclistica ‘Un Po d’Acqua’, iniziata alle 4:00 del nebbioso e umido mattino del 27 dicembre presso il Faro di Goro, per un totale di 645 chilometri in soli tre giorni e un dislivello positivo di 2909 metri. Emozionati e accaldati dopo un girar delle gambe mozzafiato, i nostri eroi si dissetano finalmente alla sorgente. Poi, attratti dal tepore della ‘Baita della Polenta’ non esitano a brindare con un bruciante ‘bombardino’ che, come dice uno dei protagonisti del giro, Matteo Filippi, in una delle sue rime, “non è durato un attimino”.

L’idea di risalire il Po in bici s’innesta nel challenge ‘Festive500’ lanciato dal noto marchio di abbigliamento ciclistico Rapha, così intitolato poiché da qualche anno richiede a partecipanti di tutto il mondo di percorrere almeno 500 chilometri tra Natale e Capodanno, registrandoli attraverso l’applicazione Strava.
“’Un Po d’acqua’ è nata dal desiderio di andare sempre oltre”, afferma Luca Sivieri, artefice dell’impresa nonché causa del ritardo alla partenza, a causa di una simpatica caduta presso il Ponte di Barche di Gorino che -in tutti sensi- ha immediatamente rotto il ghiaccio. Superato il momento di ilarità si ritorna in sella. Neanche il tempo di prendere velocità e arriva la prima foratura di Matteo Filippi. Il gruppo si ferma di nuovo, la temperatura è bassa, le mani gelide e i chilometri tanti e ancora tutti da percorrere. La difficoltà maggiore per tutti, il freddo, s’insinua pungente fin da subito tra la pelle e l’abbigliamento termico accuratamente scelto dai ragazzi per questi tre giorni di bici non-stop.
Luca Bonora parte svantaggiato, covando un’influenza che già dopo 50 km non esita a sbocciare. Un the caldo e un cornetto, denti stretti e via verso Mantova, dove però la febbre inizia a manifestarsi, costringendo questa volta Luca a gettare la spugna. “Se sono riuscito a fare 150 chilometri in condizioni di salute precaria, sarei riuscito a portare a termine l’impresa se fossi stato in perfetta forma”. Sottoporre corpo e mente a uno sforzo così grande e concentrato richiede non solo un’adeguata preparazione fisica ma soprattutto un grosso lavoro mentale.
A questo proposito risulta appropriato rievocare l’antichità: i latini solevano indicare con il verbo “resalio” il tentativo di risalita sulle imbarcazioni rovesciate dalle intemperie. Da qui deriva il termine resilienza, ossia la capacità di un materiale di resistere agli urti senza spezzarsi. Qualche giorno fa ho incontrato i ragazzi al bar Ariosto a Ferrara e ciò che ho percepito nel fluire delle loro parole è stata proprio questa abilità intrinseca di esporsi impavidamente alle difficoltà, di resistere allo stress, di risalire in bicicletta nonostante gli imprevisti e di trasformare gli ostacoli in opportunità. Attraverso le occhiaie di Enrico Canella ho inaspettatamente scoperto che anche le poche ore di sonno sono state una dura prova per qualcuno. Per non parlare del labbro superiore congelato di Simone Dovigo, che è stata invece la testimonianza visibile del logorante freddo sofferto, tanto da impedirne un’agevole parlata.

Foto di Fabio Carlini [clicca sulle immagini per ingrandire]

“Sono successe così tante cose”, dice Enrico Canella, “che sembra di essere stati in bici più di una settimana”. Quando pedali per così tante ore, accompagnato dall’essenziale, ossia vestiario di ricambio, qualche camera d’aria di scorta e un paio di barrette energetiche d’emergenza, scegli consapevolmente di esporti ‘nudo’ alle asperità, ritrovandoti per ore e ore a fare i conti con la fatica, con i dolori dettati da una posizione che non si può modificare, con i muscoli che l’umidità e il freddo atrofizzano. Il rovescio della medaglia è dato dalla forza che si sprigiona in un gruppo eterogeneo, mano a mano che le ruote sfiorano l’asfalto lasciandoselo alle spalle. “I momenti più belli sono stati tutte le volte che ci siamo aiutati”, afferma gioiosamente Matteo Filippi, che ha subito ben tre forature in tre giorni. Potrà sembrare incredibile a chi non si è mai cimentato in queste avventure, eppure un viaggio così breve può far scuola di vita. “Ho imparato a rispettare i miei limiti, per aver rispetto di me stessa e quindi anche del gruppo“, afferma con grande consapevolezza Erika Tebaldi, unica donna del team. In situazioni estreme come questa, in cui l’obiettivo comune è manifesto, individualità dissimili interagiscono come un meraviglioso meccanismo. Si creano dei ruoli che vengono incessantemente rimescolati come carte in un mazzo.
“Ho appreso che abbiamo delle capacità nascoste e una forza interiore che non aspetta altro che esplodere; ognuno di noi deve semplicemente capire che la vicinanza di altre persone potrebbe essere d’aiuto in questo processo di crescita individuale”. Queste le parole di Ermes Esposito, conduttore radiofonico nonché autore freelance, unitosi al gruppo pur se manchevole di esperienza: “La cosa più difficile è stata tenere testa ai ragazzi, ritrovandomi a volte a pedalare senza l’aiuto della scia. Devo ammettere però che mi ha temprato!”. Ermes non ha resistito al desiderio di portare con sé, in questo viaggio travagliato, un libro dal titolo “Il monaco che vendette la sua Ferrari”, in copertina l’immagine di una vetta rassomigliante alla cima del ‘Re di Pietra’. Credeva di poterne leggere qualche rigo qua e là prima di addormentarsi; non immaginava che il suo primissimo desiderio dopo così tanta strada sarebbe stato invece quello di rifocillarsi e coricarsi. Alcune parole di quel testo di R. S. Sharma sono un prezioso monito per il compagno di viaggio Luca Bonora, fermato dall’influenza: “Nella vita non ci sono errori, solo lezioni. Non esiste qualcosa che si possa chiamare esperienza negativa, ma occasioni per crescere, imparare e procedere lungo la strada del dominio di sé. E’ attraverso la lotta che diventiamo forti. Anche il dolore può essere un meraviglioso maestro”. Ecco come lo sport diventa metafora di vita.
Una presenza singolare è stata quella del torinese Riccardo Volpe, moderatore di fixedforum.it, il portale italiano delle bici a scatto fisso e del ciclismo urbano. “Curioso per natura e folle amante del ciclismo”, come egli stesso si definisce, si aggrega all’equipaggio proprio nel momento più critico e appagante insieme: l’ascesa del Monviso, che si erge immenso sulla pianura circostante. Per rispetto e solidarietà nei confronti dell’affaticata crew, Riccardo affronta solo la parte iniziale della scalata ciclistica verso la sorgente. Affronta il percorso a cavallo di una bicicletta a scatto fisso, ossia caratterizzata da un unico rapporto e un solo freno, lasciando totale responsabilità alla forza delle sue gambe e immedesimandosi quindi nello stato mentale alterato che stavano vivendo i ragazzi, i cui chilometri pedalati nei giorni precedenti pesavano come macigni. “Ho deciso di non far con loro gli ultimi 4km che li separa dalla sorgente” dice Riccardo, “non sarebbe stato corretto. Quello era il loro piccolo grande sogno che si compiva, io sono stato un osservatore privilegiato e un pedalatore ammirato nel vedere come da una semplice idea nascano così grandi emozioni”.
Fabio Carlini, il temperato del gruppo, non resiste allo scatto fotografico fermandosi a più riprese. Mano a mano che la strada sale, le nuvole si dissolvono e il crinale imponente si manifesta nell’aria rarefatta. L’atmosfera sublime e la rosea tonalità del cielo fa brillare gli occhi commossi dei ragazzi, che ora distolgono lo sguardo dall’asfalto. La maestosa bellezza in cui sono integralmente immersi rievoca quella motivazione che il freddo aveva congelato e li spinge contenti fino al Pian della Regina.

E’ nel titolo di un testo di Pietro Trabucchi che il puzzle si compie, unendo i frammenti di viaggio di questi piccoli grandi eroi raccontati sino ad ora: “Resisto dunque sono”. In queste parole regna quella sottile sensazione che prende possesso delle membra stanche e della mente esausta quando, una volta raggiunta la meta prefissata, ci si ferma ad ascoltare le ripercussioni dell’immane sforzo danzanti dentro di sé e ci si sente vivi. Più vivi che mai.
Tra una pizza e l’altra il gruppo ha intavolato qualche progetto possibile per la prossima ‘Festive500’. Fabio Carlini ha proposto un Ferrara-Zagabria con finale caldo e rigenerante. Si è parlato inoltre di un ipotetico giro delle Tre Venezie, fino al suggerimento ambizioso di Matteo Filippi di raggiungere Babbo Natale a Rovaniemi in Lapponia. “La birra sul Monviso non mi ha irriso” dice Matteo, perciò perché non provarci?

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Redazione di Periscopio



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