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Daniele Civolani, presidente Anpi Ferrara

Un Paese democratico può definirsi civile quando garantisce ai suoi cittadini una giustizia indipendente e uguale, una sanità che non abbia tempi diversi e qualità diversa a seconda del censo e una istruzione pubblica in grado di garantire a tutti, indipendentemente dall’estrazione sociale, l’accesso all’apprendimento avendo cura di spendere risorse e competenze maggiori a partire dai luoghi e dalle persone che hanno meno.
La nostra Costituzione ci fornisce tutti i principi per garantire ognuna delle affermazioni sopra esposte, ma la realtà che viviamo le smentisce palesemente e questo, tutto questo, è motivo di resistenza.
Chiarisco subito che l’attuale concetto di resistenza deve essere totalmente scevro da qualsiasi implicazione violenta, mentre deve comprendere tutti gli strumenti democratici di opposizione e di protesta, dalle manifestazioni di piazza alla disobbedienza civile. Ne è già bastata una delle resistenze armate, contro una dittatura e un invasore, altre non ne vogliamo.
In questo momento però il valore che credo debba essere difeso con maggior forza è quello del lavoro, poiché il numero impressionante di persone che vengono private di questo diritto fa sì che si vada ad aprire una ferita grave nella dignità del nostro intero Paese. Eppure la Costituzione dice cose diverse. Proviamo a considerare l’articolo 4:
“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.”
È sotto gli occhi di tutti la macroscopica inadempienza a questo dettato, che nega ad un tempo un diritto e un dovere. Ricordo a questo proposito che l’articolo in questione dice la stessa cosa che nell’800 disse un serioso signore con la barba: “A ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue capacità”. La nostra Costituzione fa di più, un po’ più avanti mette l’articolo 41, quello che Berlusconi voleva abolire in parte: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.
Parole pesanti come pietre, parole che dovrebbero far arrossire coloro che per connivenza o ignavia ci hanno condotto a questo punto di rovina.

E mi piacerebbe ricordare in quanti altri articoli compare il lavoro, come il 35 (“La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni…”) o il 36 (“Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro…”) o ancora il 37 (“La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore…”).
Leggo queste parole quasi con un senso di tenerezza accorata ma subito anche di sfiducia nei confronti di coloro che si sono succeduti a governarci e mi chiedo come possano aver avuto tanta insensibilità, tanta ignoranza, tanta criminale volontà da ridurci così. Ecco, questo è un motivo per attuare una nuova Resistenza, un motivo per essere di nuovo partigiani.
Torna sempre ciò che scrisse Gramsci nel lontano 1917 “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. E la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare …”.

Qui però nasce un altro problema, se essere partigiano vuol dire essere apertamente e onestamente di parte e se ormai anche quelli che erano la mia parte sono andati da un’altra parte, che partigiano posso essere? Di me stesso? Di un ideale forse? Di pochi amici tutti ormai coi capelli grigi che non sanno rinunciare ai principi che li hanno sorretti una vita intera?
Dico la verità, io mi sento partigiano, ma non mi sento più di combattere: mi piacerebbe tornare in piazza a protestare e vedere intorno a me centinaia di migliaia di persone affermare i propri diritti e la propria dignità, mi piacerebbe sentirmi parte di un grande e potente movimento popolare a difesa di tutti i diritti proclamati dalla Costituzione, a difesa dei deboli, degli ultimi, comunque e dovunque. Invece soffro di solitudine (politica) e l’unico modo che ho di fare davvero resistenza è tentare modestamente di comportarmi come vorrei che tutti facessero, educare mio figlio e mio nipote a prendersi cura anche del prossimo e sperare che il virus riprenda forza e contamini qualcun altro prima che trovino il vaccino e lo facciano sparire per sempre.

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Redazione di Periscopio



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