Parole a capo
“Verranno a perderci in trionfo” di Francesco D’Angiò. Un commento
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Dopo “Clessidre orizzontali”, a febbraio di quest’anno è uscita la nuova fatica letteraria di Francesco D’Angiò “Verranno a perderci in trionfo”, G.C.L. Edizioni, 2022. Un’opera che si presenta suddivisa in quattro parti, ognuna delle quali è aperta da un’immagine evocativa del contenuto specifico. Ecco che “Una vita in prestito” ha come foto introduttiva un cancello che può essere visto nell’atto di aprirsi o chiudersi. Un luogo di passaggio come è la nostra vita. La seconda parte s’intitola “I secondi abbandoni” e la fotografia rimanda ad una abitazione abbandonata; “La disperanza”, invece, presenta l’immagine di un segnale stradale piantato nel nulla in un paesaggio/scorcio di campagna. Ma tale prerogativa di “distrazione tecnica” la si può incontrare, molto spesso, anche in pieno centro urbano o nelle periferie degradate di molte città. L’ultimo quarto dell’opera di D’Angiò è dedicato a “un ateo che crede in dio” e l’immagine raffigura un’edicola votiva.
Il titolo della raccolta di poesie, con quel “verranno a perderci”, rimanda il pensiero ad una realtà, l’attuale, in cui noi abbiamo complicato tutto quello che potevamo complicare. Noi che siamo spesso portatori sani d’insensibilità e “amiamo” cucirci “addosso una divisa buona per ogni stagione”. L’opportunismo dei buoni sentimenti?
Paolo Polvani, nella prefazione, ricorda al lettore viandante che la poesia di Francesco D’Angiò “si presenta chiusa come un catenaccio, poco restia ad aprirsi, e tutta declinata come se provenisse da una lingua che ha attraversato una lunga serie di inverni di scontento”. Una poesia ruvida, diretta e allo stesso tempo difficile da afferrare che all’improvviso apre il proprio mosaico di parole a profonde suggestioni malinconiche. Come nel Testo N. 24, ad esempio:
“Vorrei uscire da questi confini
che non rubano pensieri complicati,
la rampa del caso
che ci porta nel cielo di fianco
come se ne avessimo di regole
potate quando è il tempo giusto
di guardare avanti.
Ma quand’è che si può mentire
alla lavanda
senza privarsi del suo profumo,
e parlare con lettere sbucciate
come ginocchia da accogliere
sul petto profumato di pane.
Sai dirmi domani che corpo avremo
senza doverci definire,
e se nel cavo di un’onda
potremo nasconderci il mare,
come si fa con le biglie
vinte al gioco che non dovevamo
mai diventare grandi.
Avevi ragione quando dicevi
che i nostri lineamenti
sono quelli di uno stormo
in continuo movimento.”
O nel Testo N. 90:
“Come vecchie canne al vento
inutili e persistenti, siamo qui,
come quelle giornate un po’ grigie
ed un po’ no, in attesa della chiamata
con la solita faccia, abbastanza triste
da non esserlo fino in fondo,
con un piede nella fila dei perduti
ed un altro che ancora crede
che c’è da vivere un inizio.” (…)
Non sempre è facile varcare le soglie comunicative dei significati dell’esperienza personale dell’autore. Ti affacci alla finestra e vedi altri orizzonti e il mare non c’è più. Te l’hanno rubato a notte fonda. Franco Fortini scriveva che “la poesia facile non esiste. Nulla di quel che è serio ed autentico è facile, né in politica né in poesia. I versi più tersi e trasparenti che sono stati scritti in questo mondo sono un inganno, un astuto inganno della poesia”.
Tra le tante parole chiave, incontrate nelle liriche di D’Angiò, mi piace indugiare sul limine, sul confine. “Vorrei uscire da questi confini/ che non rubano pensieri complicati, /la rampa del caso che ci porta nel cielo di fianco”. Il confine tra la memoria e il desiderio. Oppure nella poesia “Il passamano”…“sul sottile confine/ tra le promesse ed i fallimenti,/ nell’attesa di un continuo congedarsi.”
A questo proposito, Claudio Magris scrive che “i confini muoiono e risorgono, si spostano, si cancellano e riappaiono inaspettati. Segnano l’esperienza, il linguaggio, lo spazio dell’abitare, il corpo con la sua salute e le sue malattie, la psiche con le sue scissioni e i suoi riassestamenti, la politica con la sua spesso assurda cartografia, l’io con la pluralità dei suoi frammenti e le loro faticose ricomposizioni, la società con le sue divisioni, l’economia con le sue invasioni e le sue ritirate, il pensiero con le sue mappe dell’ordine.” Un’altra parola – concetto, richiamata esplicitamente o “di nascosto” è l’infanzia. Dalle “biglie/ vinte al gioco che non dovevamo/ mai diventare grandi”, o l’attesa…”sono più spesso in attesa/ che mi torni l’infanzia/ caduta dal nido” oppure “come quando c’era il grembiule/ ed i tetti s’allungavano/ per seguirci fino a scuola”.
Accadono inoltre, come per caso, versi rimati come fossero pensieri rimasti. Un esempio l’abbiamo in “Di cosa vuoi che parliamo”: “Così calde le tue mani, rallentano / lo scorrere quotidiano dell’esistenza, / come mutevole penitenza.” (…) “E’ uno squarcio che dimora / dove ombreggia l’aurora, fidandosi delle consegne notturne.” A conclusione di queste note, mi piace riportare l’ultima lirica della raccolta.
IL FOTOGRAFO DEL CAMPO
Mi fischia un orecchio ed il nome non è
sulla scatola dei biscotti,
ma nel dito sottratto all’indicazione del cielo,
nella foto ufficiale senza carne,
nel gruppo sanguigno del dolore.
Il compito svolto è dimenticare.
Allo scatto, ci fanno la fossa
che non occupa spazio,
andremo diretti dalla colpa
al monumento che ci solleva tutti.
Siamo finiti per caso
nel turno che ci espande
fino alle risposte che vi darete,
chiedete pure senza fare domande.
Prendete pure, i chiodi sono già
negli assi, e non c’è farina
che alteri il vento,
mi metterò in posa fino a che non svengo,
verrò bene nell’aria
somigliando alla consistenza di Dio,
nella quiete dell’orto, inutile quanto basta.
Francesco D’Angiò
Nato a San Vitaliano (Na) nel 1968, sposato e residente a Matera. Nell’ottobre 2020 pubblica per la casa editrice Planet Book il romanzo dal titolo Lo sconosciuto. Nel 2021 ha pubblicato il primo libro di poesie Clessidre orizzontali, Edizioni Tripla EEE.
In copertina: foto di Luca Crastolla
La rubrica di poesia Parole a capo esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia.
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Pierluigi Guerrini
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