PAROLE A CAPO
Silvia Tebaldi: “Terna estense”
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“Tu sei colui che scrive ed è scritto.”
Edmond Jabès
Terna estense
I
Poi si ha un bel dire, ma infine è qui che si torna
sempre, anche solo con il pensiero:
le quattro torri, i Diamanti, la meridiana
equinoziale dei Prioni, la Certosa
che mette a dura prova l’ateismo
con la bellezza; e l’orto di là, in cui tutti siamo
stranieri. E le quattro lune di Giove
tra il Capo delle Volte e Centoversuri.
Ma certo, è perché qui eravamo giovani,
penso guardando fuori quando il treno
oltrepassa la Darsena e il Volano
e passo il ponte e la punta di San Giorgio
Porta d’Amore Assiderato i baluardi
Salinguerra e contrada della Morte
poi detta Ghisiglieri, in cui misuravo
la mia altezza su quelle pietre d’angolo
di là dall’occhio della volta.
Ah ma vuoi dire, tu stai in una città
che uscite senza ombrello, che la pioggia
inizia quando terminano i portici:
poi però torni qui,
dove l’ombrello è meglio se ce l’hai
e di rado hai del tempo da passare
nella bellezza, ma poi ti porti via
come un hangover che dura tre giorni
la sindrome di Stendhal, e poi ritorni
per qualche ora e dopo riprendi il treno
oppure la Porrettana, e verso Gallo
o il metano già ti senti come
come dire, un vagabondo del Dharma.
II
In questa foto dieci per quindici si vede
l’ala dell’Ippogrifo che sorvola
la piazza verso le sette del mattino:
il listone, il castello, la Giovecca,
piume. Ignoriamo se tornasse
dalla luna o da un giro sui sobborghi
corrosi dalla crisi, con le crepe
del terremoto del duemiladodici;
poi è planato fuori porta, dove molti
secoli fa correva il fiume (nostra prima
radice) tra vecchi capannoni e buche.
Astolfo ha tagliato a piedi per i campi,
berretta storta, sigaro e mani in tasca –
certo, ci sarebbe voluta la tua Nikon.
III
Notte viene ogni notte, notte viene
per tutti. Siamo tutti parenti e non solo
qui in questa piazza, campo catino abside,
in questo accendersi di luci contro
la sera, contro la notte che viene.
Dunque era questa la capsula del tempo
che dicevamo da ragazzi, da nerd, da lettori
di Bradbury. Una capsula del tempo mezza rotta,
collabente in alcune particelle
immobiliari e con lavori di ripristino
malfatti, eppure ci si vede dentro
e lo spazio è più di quanto immaginassi,
e il tramonto è un re cremisi.
E poi, guardando meglio,
c’è come una felicità quasi
inumana,
che non mostra legami con gli eventi
che sta lì come il corpo, come i coppi
e lo scalone in cui ci sono tutti
i nostri passi.
Come un contener dentro moltitudini
qui in piazzetta. E c’è ancora il ragazzo
che acchiappa chi si è perso chi sta cadendo
giù da un campo di segale, solo che non lo vedi
ora, come il fienile che si sgretola,
la casa vuota, il prato fuori porta.
Silvia Tebaldi, ferrarese, a Bologna dal 1985. Ha scritto un romanzo, Vuoto centrale (pubblicato nella collana Walkie Talkie diretta da Luigi Bernardi, Perdisa Pop, 2009) e alcuni racconti, pubblicati in antologie (la più recente è Deaths in Venice, a cura di Laura Liberale, edita da Carteggi Letterari nel 2017) e online (su «Poetarum Silva», su «Argo» e su «Malgrado le mosche»). Ha lavorato in diversi uffici, biblioteche e ospedali. Fotografa, apprendista nella scrittura in versi, calligrafa e acquarellista a tempo perso.
Cover: Remo Brindisi: Castello Estense

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Benini & Guerrini
PAESE REALE
di Piermaria Romani
Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)